ITALODISCHI #2 2024 – Il ritorno degli anni Novanta

Il punto con le novità italiane, con i nuovi dischi di Subsonica, Morino, Bugo, La Crus e Paolo Benvegnù

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I primi mesi del 2024 sono stati il solito diluvio di pubblicazioni, e tra le particolarità del periodo è che c’è stata un’inusuale recrudescenza di artisti “storici”, ovvero di nomi che sono stati decisivi per la rinascita dell’indie italiano in quel momento magico che ci fu tra la metà dei Novanta e i primi anni Zero.

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Al punto che questa volta ho deciso di fare una rassegna in due parti distinte, una (questa) dedicata ai ritorni illustri, mentre la successiva sarà rivolta a nomi nuovi o quasi, per intravedere un po’ di futuro.

C’è da dire che i “grandi vecchi” a questo giro sono protagonisti di ritorni in generale di assoluto rilievo; potrei quasi pensare che di fronte a queste prove andare a cercare la novità a tutti i costi sia perfettamente inutile, ma dai, non voglio apparire più boomer di quel che sono.

Subsonica, Realtà aumentata

E comunque, inizio da – noblesse oblige – Realtà aumentata, il disco pubblicato a inizio anno dai Subsonica. Una bella botta, diciamolo, oltre tutto inaspettata. Perché i Subsonica, band che non pubblicava un “vero” disco da quasi dieci anni, sembravano inevitabilmente diretti verso una parabola discendente.

E invece, forse proprio grazie a questa pausa in cui più o meno ogni membro del gruppo ha avuto la libertà di concentrarsi su progetti solisti, il ritorno è foriero di nuove energie, creatività, ispirazione, come non accadeva da tempo. Stupisce soprattutto la naturalezza con cui il sound torna a miscelare brillanti spunti melodici con soluzioni eclettiche e iper-moderne; forse mai come questa volta l’elettronica si integra perfettamente nel tessuto delle canzoni, senza mai apparire come un costrutto superimposto o un artificio di produzione.

Basta sentire pezzi capolavoro come “Universo” o “Scoppia la bolla” (quest’ultima con i featuring illustri di Willie Peyote ed Ensi) per rendersene conto. Tour nazionale appena iniziato: non perdeteveli.

Paolo Benvegnù, È inutile parlare d’amore

A seguire, ecco il mio cantautore preferito da oltre vent’anni, l’ineffabile Paolo Benvegnù col suo nuovo È inutile parlare d’amore.

In questo disco alcuni hanno voluto ravvedere una sorta di ammorbidimento, un tentativo di avvicinamento alle soluzioni facili del mainstream – cosa che sarebbe del tutto comprensibile, visto che da quando scrive canzoni Benvegnù è adorato dalla critica ma non ha mai sfondato a livello popolare.

E il suo disincanto sta tutto nel testo paradossale di “Canzoni brutte”: Scrivere canzoni brutte / Che possano piacere a tutti e tutte. Un’ambizione che, ahimè, non può che andare disillusa: per sua sfortuna, Benvegnù è assolutamente incapace di scrivere canzoni brutte, e quindi sorry, niente successo radiofonico, neanche questa volta.

Al contrario, i suoi fan si dovranno accontentare di melodie di sofisticata perfezione, impeccabilmente scritte e interpretate (anche dal vivo, per chi ha/avrà la fortuna di vederlo: lo show è inattaccabile), con un calore e una sincerità che non ha eguali in Italia. Lo so, sono un fan: come lo dovrebbe essere chiunque ama la musica bella e vera.

Morino, DeWest

Il destino è stato un po’ diverso per Luca Morino; ai tempi dei Mau Mau, dei quali fu fondatore e frontman, aveva conosciuto una relativa gloria, con una manciata di album che una trentina di anni fa avevano stabilito uno standard tanto inedito quanto accattivante per un’improbabile ma efficace declinazione piemontese della musica etnica.

Personaggio emblematico ma un po’ dimenticato, Morino ritorna ora con DeWest ed è una meravigliosa sorpresa. Il West come concetto astratto, come metafisico luogo di frontiera in cui far confluire l’America e le Langhe, Morricone e i mariachi, Paolo Conte e i Calexico. Un viaggio tuttavia talmente tattile e concreto, in questo universo parallelo, che definirlo mentale è riduttivo, tali e tante sono le suggestioni ispirate da questi brani.

Un disco esuberante e pieno di vita, che potrebbe essere quello della rinascita artistica di Morino: lo meriterebbe.

Bugo, Per fortuna che ci sono io

Se però vogliamo parlare di cantautori dal destino beffardo, difficile eguagliare quello di Bugo. Fu salutato come un fenomeno agli esordi di inizio secolo, quando abbinava un sano senso del demenziale a una sopraffina scrittura cantautorale, al punto che passò anzitempo su major, senza però raccogliere quanto avrebbe meritato.

Quando poi approdò, con molti anni di ritardo, a Sanremo, la celeberrima sceneggiata con Morgan lo marcò indelebilmente.

Erano già alcuni anni che la sua ispirazione era di fatto in calo, e onestamente potevamo ormai darlo per perso. È quindi con piacere che notiamo in questo recentissimo Per fortuna che ci sono io qualche netto segnale di ripresa. C’è chiaramente in questo album la convivenza un po’ forzata delle due anime di Bugo, quella predominante del rocker innamorato dei riff elettrici da una parte, e dall’altra quella più saltuaria dell’autore melodico di musica leggera, dagli arrangiamenti un po’ melliflui.

Se una volta l’estremo eclettismo stilistico era connaturato al personaggio, oggi esprime qualcosa di irrisolto e contraddittorio; ma è anche sintomo di vitalità, dell’esistenza di una fiamma ancora accesa, che potrebbe effettivamente dar luogo a esiti importanti.

L’album non è impeccabile, ma ci sono parecchi momenti degni di nota come non capitava da tempo, e quando Bugo azzecca il pezzo killer (ad esempio, il ritornello di “Un bambino” è veramente strepitoso) mostra che il suo talento deve solo essere rimesso a nuovo.

La Crus, Proteggimi da ciò che voglio

Concludo con il disco di una reunion tra le più significative dell’anno in corso (con buona pace dei CCCP): quella dei La Crus, che si riformano nella line up originale a distanza di oltre dieci anni dall’ultimo disco.

Poteva essere un ritorno nostalgico per far contenti i fan della prima ora, ma invece Proteggimi da ciò che voglio è molto di più. Accanto a pezzi che richiamano il sound classico della band, ci sono delle proiezioni in territori più inconsueti e modernisti (complice la produzione di Matteo Cantaluppi, che a tratti flirta spudoratamente con l’elettronica) che rendono l’album una riuscitissima sintesi tra richiami dell’epoca del cantautorato digitale e pulsioni di canzoni futuriste.

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