Alabaster DePlume, agit-prop jazz punk

Il tour italiano di Alabaster DePlume, fino al 10 marzo: la nostra intervista

alabaster de plume
Foto di Chris Almeida
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Il tour italiano di Angus Fairbaim – questo il vero nome di Alabaster DePlume, musicista originario di Manchester ma residente a Londra – ci ha dato lo spunto per approfondire con lui alcuni temi nel corso di una chiacchierata.

Alabaster DePlume sarà il 5 marzo a Napoli (Auditorium Novecento), il 6 marzo a Pesaro (Sala della Repubblica del teatro Rossini), il 7 marzo a Foligno (Spazio ZUT), l' 8 marzo a Firenze (Sala Vanni), il 9 marzo a Novara (NovaraJazz Weekender Spring 2024 @Spazio Nova) e il 10 marzo a Genova (La Claque). 

– Leggi anche: Lo strano caso di Alabaster DePlume

Bene, possiamo partire, non prima però di aver sottolineato che Gus è stato di una simpatia e di una gentilezza davvero rare.

Dove sei in questo momento, a Londra?

«Sì, sono al Total Refreshment Centre. Sei mai stato qui?»

No, conosco un po’ Hackney, ci ho anche abitato per un mesetto, ma ti sto parlando di un periodo in cui il TRC non esisteva ancora.

«Allora devi venire, ma subito, non più avanti, immediatamente!»

Ok, interrompo la conversazione e scappo in aeroporto. Scherzi a parte, ci conosceremo di persona il 9 marzo, a Novara.

«Bene, suonerai con me?»

Sarebbe bello ma non so suonare.

«Ma dai, hai due settimane a disposizione per imparare a fare qualcosa, ce la puoi fare».

Per rispetto nei confronti del pubblico pagante è meglio di no (risate). Suonerai sei date in Italia: è il tuo primo tour, diciamo così, esteso nel mio Paese?

«Sì, possiamo dire di sì. Ho suonato due volte in Italia, una al Sud e l’altra a Milano, alla Triennale. Mi è piaciuto, mi sono sentito accolto e anche coccolato. Sul palco metto in mostra chi sono in quel momento e quando mi chiedono come farò lo show, io rispondo che non lo so, dipende da come mi sentirò sul palco e da chi ci sarà in sala. Una cosa è certa: io trasmetterò sempre amore e cercherò di far uscire quello del pubblico. So già che il pubblico italiano mi manifesterà la sua grazia impetuosa (il suo ultimo album s’intitola Come with fierce Grace). La cosa più importante che il pubblico può portare è sé stesso, è qualcosa che ho sempre ben presente nella mia testa».

L’improvvisazione ha una parte importante nelle tue esibizioni.

«È possibile creare bellezza indicibile seguendo l’ispirazione del momento. Mi affascina l’idea dell’unicità della musica, della sua momentaneità non replicabile, anche se poi cerchi di ritrovarla, già sapendo che non sarà più la stessa. Questo momento che tu e io stiamo vivendo, anzi condividendo, è unico, non tornerà mai più, almeno sotto questa forma».

«Ti dirò, amo tutto ciò. L’amore è un atto di volontà e io mi sono imposto di amare il fatto che le cose non ritornano, mi spinge ad apprezzare maggiormente ciò che sto vivendo. Il tempo che sto passando con te non tornerà e la comprensione di questo semplice concetto mi spinge a cercare di conoscerti sotto la tua superficie, in profondità, conoscerti come essere umano. Ah, prima che me ne dimentichi, Ennio, grazie per il lavoro che stai facendo, grazie per aver preparato delle domande da pormi e grazie per il tempo che mi stai dedicando (ve l’avevo anticipato che Gus è una persona di una gentilezza fuori dal comune)».

Quando sei in tour, specialmente in Inghilterra e negli Stati Uniti, ti piace cambiare spesso i musicisti con cui ti esibisci, scegliendo alcuni di quelli che risiedono nelle varie città in cui fai tappa, meglio ancora se non conoscono la tua musica. Durante le date italiane invece sarai accompagnato da due musiciste: questo per difficoltà organizzative o perché non ci sono strumentisti in Italia in grado di seguire questo tuo approccio?

«No, no, non è questo il motivo. Volevo suonare con due musiciste che conosco da tempo e che stimo molto: la prima è Ruth Goller, bassista e cantante nata in Italia ma residente a Londra, il cui secondo album Skyllumina esce all’inizio di marzo per la mia stessa etichetta, International Anthem. Nel singolo che ha preceduto l’album, “Below My Skin”, alla batteria c’è il mio amico Tom Skinner (Sons of Kemet e The Smile)».

«La seconda avrebbe dovuto essere Donna Thompson ma non potrà essere presente e allora ho coinvolto la straordinaria Momoko Gill, cantante e percussionista già presente nel mio ultimo lavoro».

«Ci vuole coraggio a esibirsi in formazione ridotta ma le musiciste sanno di avere la proprietà di ogni momento specifico. Loro hanno più possibilità per ciò che concerne la musica che stiamo suonando. Ci sarà più spazio per loro e per i loro suoni. Inoltre queste due donne conoscono così bene le mie canzoni che in qualsiasi momento possono introdurre delle variazioni. Conosco alcuni musicisti italiani e non mi dispiacerebbe se qualcuno di loro venisse a suonare durante questi prossimi concerti. Conosci Chiara Civello?»

Conosco il nome, mi par di ricordare qualche sua apparizione al Festival di Sanremo ma non posso dire di conoscerla.

«È una cantante bravissima che ha vissuto per un po’ in Brasile ma poi è tornata in Italia. Ascoltala, a me piace molto. È una mia amica».

(Faccio una ricerca su Youtube, m’imbatto nel video di “Sempre così”, canzone dedicata alla sua amica poetessa Patrizia Cavalli e mi ricordo di averlo già visto qualche mese fa, ignorando però questa sorta di connection con Alabaster DePlume).

Stai ancora lavorando con persone con difficoltà di comprensione?

«No, non lavorativamente parlando, e mi manca. Ho imparato molto su come ci si comporta con gli altri, sulle performance, sulla leadership, sulla dignità. L’ho fatto per dieci anni e quando ho iniziato l’ho fatto perché lo sentivo come il mio lavoro e come un lavoro che mi avrebbe portato dei soldi a fine mese. Non avrei mai pensato che entrare a far parte di questa scuola mi avrebbe portato così tante cose e che, in ultima analisi, mi avrebbe salvato la vita».

«Anche se si fa un lavoro di merda giusto per avere i soldi per mangiare, si può comunque imparare qualcosa dalle persone che sono intorno a noi e si può apprendere come funziona la leadership. In ogni caso, quando cerchi un lavoro, la persona seduta di fronte non cerca te ma qualcuno con certe caratteristiche, sta a te far capire che quella persona sei tu e sei tu proprio perché sei tu, indipendentemente da tutto il resto».

Poco fa mi hai detto di essere un buon amico di Tom Skinner: hai ascoltato i suoi lavori con The Smile? Ti piacciono?

«Sì, adoro quella roba. In realtà ho ascoltato solo il primo disco e non ancora quello nuovo. A te piacciono?»

Non faccio molto testo, dopo tutti questi anni non sopporto più la voce di Thom Yorke e questo aspetto influenza pesantemente il mio giudizio. Trovo noioso il suo stile lamentoso.

«(Risate) Ti capisco, è uno che preme sempre lo stesso pulsante. Dai, Thom, sorridi, fai un brindisi con una pinta. The Smile, so smile… »

Negli ultimi anni a Londra si è sviluppata una nuova scena di musicisti riconducibili, per semplicità, alla musica jazz o, come si usa dire, al nu jazz, e sto facendo riferimento a Shabaka Hutchings e ai suoi vari gruppi, ai Kokoroko, a Theon Cross, ad Alfa Mist, a Nubya Garcia, a Moses Boyd e a Ezra Collective: è vero, ci sono frequentazioni, ci sono collaborazioni?

«Sì, conosco tutti questi musicisti però non so cosa voglia dire nu jazz».

I giornalisti musicali amano le etichette perché semplificano loro la vita. A questo proposito, siccome definire la tua musica è piuttosto difficile, immagina che io ti stia puntando una pistola alla tempia e dammi la tua definizione.

«Dunque, una pistola alla tempia e penso non tutto il giorno per pensare: allora ti dico agit-prop jazz punk (risate)».

Bella definizione, mi piace, mi ricorda quei gruppi nati dall’implosione di The Pop Group, soprattutto Rip, Rig + Panic. La userò.

«Jazz, che cos’è il jazz? Non penso che spetti a me darne una definizione. In origine il termine era un insulto, un’offesa. Era una musica che non contava nulla perché era suonata dai neri. J-a-z-z, era musica contro l’atrocità, una risposta ai crimini contro l’umanità. Dall’insulto nacque la gioia e io vorrei che la mia musica fosse altrettanto coraggiosa. Non hanno ancora insultato la mia musica come l’hanno fatto col jazz: quando lo faranno, prenderò quell’insulto per usarlo come definizione della mia musica».

«Adesso la chiamano jazz per quale motivo? Perché suono il sassofono? Dai, sono un signore inglese di carnagione bianca. Le etichette piacciono ai giornalisti e piacciono al pubblico, aiutano. E allora ricordiamo che la vita è troppo breve e creiamo nuove etichette, chi se ne frega (risate). Comunque spero vivamente che insultino la mia musica, userò veramente quell’insulto, credimi. Non puoi aiutarmi perché ami la mia musica? Sto parlando con la persona sbagliata, sto perdendo il mio tempo (risate)».

Come hai passato il tuo tempo durante la pandemia, cos’hai fatto?

«Qui al TRC c’è uno studio e in quei mesi era vuoto, così è stato a mia completa disposizione. So che in quel periodo molta gente è entrata in contatto con la mia musica, a febbraio del 2020 è uscito il mio album di brani strumentali To Cy & Lee: Instrumentals Vol. 1. È stato un periodo di cambiamento e il fatto che molte persone, tra cui tu, abbiano ascoltato la mia musica mi ha trasmesso molto calore a cui risponderò cercando di creare cose sempre migliori. Cercherò di essere maggiormente me stesso, entrando ancor di più in connessione con chi mi ascolta».

Nel tempo libero ascolti musica, ti tieni informato?

«No, direi proprio di no. Faccio jujitsu. Ne ascolto un po’ di più quando sono in tour, altrimenti no, sono sempre qui a lavorare».

Penso che International Anthem sia una delle etichette discografiche più interessanti in circolazione.

«Sì, mi piace molto e mi piacciono le persone che ci lavorano. Lei hai mai incontrate? Sono deliziose (detto da lui non può che essere vero). Prima di iniziare l’intervista hai nominato la scomparsa Jaimie Branch: lei era una mia amica e una musicista straordinaria. È stato un onore per me poter collaborare con lei, aveva la grande capacità d’inserire le notizie politiche nella sua musica. Il suo stile era davvero pieno di vita».

Una domanda inedita: puoi spiegare ai lettori del GdM l’origine del tuo nome d’arte? Penso di conoscere la risposta ma vorrei la tua versione originale.

«Puoi spiegarla tu a me? (risate)».

Stavi camminando per strada e qualcuno ti ha urlato qualcosa da un’auto di passaggio e quel qualcosa, in realtà incomprensibile, suonava alle tue orecchie come Alabaster DePlume: questa è la storia come la conosco io.

«Sì, sì, più o meno è questa. Era notte, stavo camminando lungo Upper Brook Street a Manchester quando sento avvicinarsi a forte velocità un’auto che emetteva un rombo davvero potente, impressionante, e da un finestrino si sporge una persona che non esito a definire generosa perché ha voluto condividere con me il suo punto di vista: evidentemente era a conoscenza di molte cose su di me perché ha sentito il bisogno di offrirmi la sua prospettiva, ma purtroppo aveva poco tempo perché era impegnato a guidare in quella maniera impressionantemente veloce e così non è riuscita ad articolare una frase in inglese compiuto ma solo a emettere una specie di…sì, di rumore, e quel rumore a me è suonato come Alabaster DePlume, e poi l’auto è sparita e io ho perso l’attimo, non ho potuto litigare, però mi sono tenuto il nome. Ho preso tutto ciò come una forma d’incoraggiamento. Non so chi sia ma spero che oggi abbia una splendida giornata».

È il caso di dirlo: ovunque tu sia, grazie!

«Certo, avrà sempre un posto nel mio cuore e da oggi anche nel tuo, ne sono convinto (risate)».   

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