Sin dal suo primo annuncio, nel tardo autunno, il riallestimento del Prometeo di Luigi Nono (ne scrive Stefano Nardelli qui) in quella stessa Chiesa di San Lorenzo che ne aveva visto il debutto, ha suscitato un interesse e un’attesa piuttosto sorprendenti per un mondo, quello della musica del Secondo Novecento, che certo non gode di particolare hype presso il pubblico non specialistico.
I biglietti per le quattro rappresentazioni sono andati bruciati in pochissimi minuti, impegnando le persone interessate in guizzanti prestazioni olimpioniche di “click su schermo” nelle varie tranches con cui sono stati resi disponibili e ingenerando rapidamente una vera e propria FOMO (Fear of Missing Out), quella contagiosa ansia sociale di venire esclusi da eventi considerati imprescindibili che appartiene più all’ambito dell’entertainment o dell’arte contemporanea che non a quello della musica non popular.
Merito certo della Biennale, il cui Archivio Storico delle Arti Contemporanee (ASAC) ha immaginato il riallestimento in occasione dei 100 anni dalla nascita del compositore, in collaborazione con la Fondazione Archivio Luigi Nono e TBA21–Academy, che nella Chiesa di San Lorenzo opera con il bel progetto Ocean Space.
Merito di una comunicazione efficace che ha fatto anche breccia, in uno dei pochi periodi dell’anno scarichi di eventi nella città lagunare, sul fascino un po’ mitico che i ricordi della prima nel settembre del 1984 (altrettanto celebrata al tempo dai giornali e dalle cronache), hanno lasciato nel complesso tessuto narrativo veneziano.
Per chi, come me, all’epoca era poco più che tredicenne, l’idea che dietro l’imponente facciata grezza dell’edificio si fosse compiuto uno dei momenti più iconici dell’avanguardia musicale di fine secolo, sotto la guida indomita di una sorta di gruppo di Avengers della cultura più radicale (Renzo Piano a costruire l’arca lignea, Massimo Cacciari al pensiero, Alvise Vidolin all’elettronica, Claudio Abbado a dirigere, un fuoriclasse come Emilio Vedova reimpiegato come luciaio per mancanza di scenografie… oltre al compositore e a interpreti come Schiaffini, Scodanibbio e Fabbriciani) ha sempre costituito una piccola, grande, leggenda.
In fondo, quindi, nulla di strano se la frenetica attesa (con i social a ribollire di disperate richieste di bagarinaggio) sia sembrata di gran lunga maggiore rispetto all’interesse che mediamente viene riservato a questi suoni e tradizioni musicali. Però, al di là della sensazione che il mood “una cosa (forse) divertente che non farò mai più” - per citare il buon Foster Wallace - e il piacere per questo rinnovato, per quanto forse fittizio, interesse per Nono fossero prevalenti, mi pare che si possa spendere qualche riflessione in più.
Tra i compositori italiani del Secondo Dopoguerra, Nono riveste una posizione peculiare: tra i più amati e riveriti - per il rigore artistico e morale fuori dal tempo, prima ancora che per l’unicità del pensiero compositivo - ma anche in fondo un po’ frettolosamente rubricato e sentito come musicalmente invecchiato precocemente, se da un lato ha intuito e anticipato quella centralità del suono che è certo uno dei pilastri dell’ascolto dei nostri tempi (fateci caso, a essere i più amati e citati in questi anni sono spesso compositori e compositrici percepite di “suono” e di “mood” prima ancora che di articolazione formale - da Arvo Pärt a Alice Coltrane, dal Leone d’Oro Brian Eno a Eliane Radigue…), dall’altro la sua complessità culturale e ideologica spesso mal si sposa con l’immediatezza emozionale che nuove generazioni di ascoltatrici e ascoltatori cercano anche nelle pratiche sonore più sperimentali.
Quindi, volendo, un compositore davvero “contemporaneo” (se vogliamo vederla dalla parte di Giorgio Agamben) anche oggi: aderente al tempo e sfasato rispetto a esso, scomodamente in una posizione anacronistica. E se è vero, come ricordavamo, che anche all’epoca della prima, il lavoro e il suo visionario allestimento furono al centro di un ampio dibattito pubblico, quindi percepiti come “evento”, non è difficile capire quanto il lascito prometeico di Nono sia qualcosa di molto distante dalle nostre abitudini d’ascolto e di fruizione.
Perché l’evento ci richiama a una forma di ascolto cui non siamo più abituati: totale, immersivo (la spazializzazione del suono, ancora oggi fascinosa, è però qualcosa di non più “unico”), non distratto, lungo, responsabilizzato in termini di relazione con il silenzio e con la mancanza di predominio del visuale. Pensiamoci un attimo: in un mondo in cui la visualizzazione è onnipresente, dallo scrolling infinito di Instagram alla prevalenza performativa nel teatro musicale, l’idea di un ascolto puro è qualcosa di davvero raro e faticoso da perseguire.
«Saper ascoltare. Anche il silenzio. Molto difficile ascoltare il silenzio gli altri l’altro. Altri pensieri altri segnali altre sonorità altre parole altri linguaggi». «Saper ascoltare. Anche il silenzio. Molto difficile ascoltare il silenzio gli altri l’altro. Altri pensieri altri segnali altre sonorità altre parole altri linguaggi».
Scrive Luigi Nono in un frammento di diario riportato nel bel catalogo del riallestimento odierno, in cui viene ripreso lo storico volume Verso Prometeo. Rileggendolo non ho potuto fare a meno di percepire in queste parole una dolorosa, tragica (dopotutto il Prometeo è una “tragedia dell’ascolto”) attualità.
Anche senza scomodare la complessità dell’intricata costruzione speculativa di Prometeo (da Eschilo a Walter Benjamin passando per Hölderlin), non credo sia difficile comprendere quanto il “saper ascoltare” di cui parla Nono sia qualcosa di estremamente lontano dalla nostra esperienza quotidiana, un’attitudine che non sembriamo avere il tempo di curare e coltivare, tale è la sua forza perturbatrice di quelli che sono gli ordini di valore socio-economico e culturale della nostra contemporaneità.
In questo senso la, da più parti rimarcata, “assenza” dell’arca, la struttura lignea disegnata allora da Renzo Piano (e ancora conservata in un magazzino a Mezzago) che rispondeva all’esigenza di Nono di sottrarre allo “scenografico” un dispositivo teatrale comunque destinato “a rivivere in altro modo, impossibile da pantografare attraverso gli anni” - come ricorda Veniero Rizzardi in questo bel contributo per The Italian Review ) - ha per molti versi rimarcato questa insanabile “lontananza nostalgica utopica futura”, per usare un altro titolo di Nono.
Nelle oltre due ore, a tratti magiche e incantatorie, del Prometeo 2024, lo sguardo vaga sulle impalcature, sui musicisti, a cercare il gesto dei due direttori, a sbirciare il vicino che nel catalogo cerca di capire in che punto siamo, a seguire le forme di una statua o le ombre proiettate dalle grate metalliche sui muri scarni. Ci si ritrova soli tra scorie di madrigali che appaiono e scompaiono come illuminati ciclicamente da un faro sperduto su una scogliera; tra sciabolate di archi che fendono la realtà, in un pulviscolo sonoro in cui la solitudine corrisponde a una forma estrema di libertà.
A essere “performato” è l’evento, prima di tutto, l’esserci, partecipare al culto reso realtà. Ma lo smarrimento di fronte all’immensità dell’interrogativo prometeico che Nono solleva oggi - forse anche ben oltre quelle che erano le sue, per quanto combattute, intenzioni - è una grande botola che si apre sotto i piedi di chi ascolta. Certo “bello, ma un po’ lungo…”, “alcune parti mi sono piaciute molto”, “nell’ultima mezz’ora ho perso un po’ la concentrazione”, “che emozione lo spazio così allestito…” sono alcuni dei commenti che più frequentemente ho colto alla fine, insieme all’esigenza quasi compulsiva di chi fortunatamente era presente anche 40 anni fa di dire “eh, io c’ero anche alla prima…”, quasi a riportare alla prosaicità del dicibile, del visibile, quello che in fondo sfugge ancora una volta a ogni possibilità di essere compreso completamente.
Benvenga quindi la FOMO per Prometeo.
Benvenga l’elegante signora che mi avvicina fuori dalla Chiesa a chiedermi se ho un biglietto in più come se chiedesse se le vendo del fumo. Benvenga fingere che le avanguardie compositive siano à la page, mentre i programmi di teatri e stagioni concertistiche smentiscono con allenato vigore.
Ma non dimentichiamoci di Luigi Nono.
Di quanto Prometeo ci metta smaccatamente di fronte a quello che non siamo come ascoltatori e ascoltatrici. A quello che potremmo essere, anche senza frenesia per un sold out.
Ascoltando la musica. “Non in una possibilità di ascolto” come ci ricorda il compositore. Ma come infiniti respiri.