Il folk bislacco dei Tapir!

The Pilgrim, Their God and the King of My Decrepit Mountain è l’album d’esordio del collettivo londinese

Tapir
Disco
pop
Tapir!
The Pilgrim, Their God and the King of My Decrepit Mountain
Heavenly
2024

Per nome hanno scelto – rafforzandolo con tono esclamativo – quello del mammifero la cui proboscide è riprodotta nelle maschere di cartapesta che ne camuffano l’identità. Ecco i Tapir!, collettivo londinese creato nel 2019 dal cantante e chitarrista Ike Gray insieme al tastierista Will McCrossan e allevato al George Tavern, pub e snodo artistico di culto nella capitale britannica gestito dalla performer Pauline Forster.

Espressa dal bassista Ronnie Longfellow in un’intervista concessa a “DIYMag”, l’intenzione è diventare «qualcosa più di una band che fa concerti». Conseguentemente ambizioso e articolato il progetto esposto al debutto discografico: un trittico di Ep intestati rispettivamente The Pilgrim, Their God e The King of My Decrepit Mountain, riuniti ora in un album al quale il sestetto dice di voler associare un corollario in forma di libro illustrato, sequenza di video dei singoli brani e allestimento teatrale, dando così sfogo a un’istintiva poliedricità.

Poiché si tratta di un’opera dotata di unità narrativa, per valutarla occorre accettarne lo svolgimento cronologico: nell’introduttivo “Act 1 (The Pilgrim)” la voce recitante racconta del Pellegrino che si mette in marcia verso “l’Oltretomba” rispondendo a “una chiamata”.

Scende allora dalla collina erbosa e s’inchina al destino incombente (“Se qui fuori sta l’irrilevanza, mi adagerò nel ricordo”): ciò accade in un ambiente sonoro definito dall’intreccio fra arpeggio chitarristico e rullar di batteria elettronica, con un canto in falsetto che sa di Fleet Foxes.

A “On a Grassy Knoll (We’ll Bow Together)” segue “Swallow”, dove la rondine del titolo ha “le ali spezzate”, si ascolta un fraseggio di cornetta e l’arrangiamento tende al “prog”, mentre a concludere il primo atto è “The Nether (Face to Face)”, la cui intelaiatura folk è rivestita da un patina di jazz, sfondo per un’apparizione inquietante: “Una creatura striscia fuori dall’Oltretomba, danzando sgraziatamente, mi scuote la testa e mi strappa la pelle”.

Scampato al trauma, in “Act 2 (Their God)” il protagonista “vede l’oceano e prende una barca”, anche se “in lontananza si sente un rombo nel cielo, nube di tempesta in avvicinamento”: è il preludio alla traversata angosciosa – “Ho paura di affondare, il faro a riva non può essere d’aiuto” – a bordo dell’“arca danneggiata”, musicata sul registro della malinconia.

All’approdo insperato, si festeggia (“Ballo nudo sulla sabbia”) al suono della prima “Gymnopédie” di Erik Satie, accennata alla chitarra: prologo al solenne sbocco orchestrale di una canzone popolata da visioni conturbanti (“Mi è stato detto che in paradiso le stanze sono infestate dai topi, ci sono briciole fra le lenzuola e Gesù ha i pidocchi”).

Chiude la seconda parte “Eidolon”, descrivendo con intonazione confidenziale un incontro soprannaturale: “Ti ho collocato su un piedistallo, ti ho messo sul trono, così grande eppure invisibile, il mio Fantasma mi porta a casa”.

Dopo il consueto preambolo e una ballata “Untitled” dall’umore rasserenato (“Mi duole la gola per i vecchi rimorsi, quindi canterò per te”), l’ultima sezione culmina in “My God”, dal refrain modulato nello stile della “My Girl” di Smokey Robinson in contrasto con la sensazione da incubo consumista evocata nel testo da una sfilza di marchi: iPhone 6, Hugo Boss, Maybellene…

È l’anticamera dell’epilogo, celebrato con enfasi in “Mountain Song”, confessando preliminarmente di aver “costruito per me una montagna fatta delle cose che volevo possedere”.

L’iniziale atmosfera fiabesca sfocia dunque in una dimensione più prosaica, tradendo in un certo senso la vocazione mitopoietica della messinscena. Poco male, siccome il disco – in attesa degli annunciati sviluppi multimediali – ha in definitiva gusto gradevole ancorché naïf.

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