Soprattutto quando sono “strettamente personali”, le liste dei dischi di fine anno parlano in fondo di chi le compila tanto quanto dei lavori che ne entrano a far parte.
Magari è stato un anno in cui ti andava di ascoltare certe cose e altre, pur magari sotto certi aspetti più significative, se ne sono state un po’ fuori dai radar. O magari quel disco è entrato in lista in “zona Cesarini” e non te lo sei filato per 11 mesi, ma per fortuna che te ne sei accorto!
In bilico tra “obbligo o verità”, frame che coglie in posa sorridente solo alcuni dei volti che hanno popolato una fruizione più complessa di quanto appare (tra live, vinili, appendici di playlist rimaste impigliate nel lembo di una piattaforma, condivisioni social, virtù private e pubblici vizi), il mio 2023 parla di me e di quanto mi piaccia inseguire musiche che non devono per forza trovarsi imbullonate in uno zeitgeist, ma siano qui e ora come potrebbero benissimo non esserlo, in ordine rigorosamente sparso e ricomponibile a piacere.
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1. Cleo Sol, Heaven + Gold (Forever Living Originals)
Con una formula di spiazzante semplicità soul, in cui la precisa produzione di Inflo e la sua voce che non fa prigionieri marcano una devastante differenza, Cleo Sol è tornata, un po’ a sorpresa, con due dischi a distanza di poche settimane l’uno dall’altro (giusto segnalarli entrambi).
Piantata nella tradizione, ma anche rifuggendo da ogni manierismo per provare piuttosto a cesellare i dettagli di piccoli squarci di spiritualità quotidiana, l’artista inglese si riprende, nel cuore di chi la ascolta, quel posto che nemmeno la sua ritrosia, l’iperproduttività dei Sault e la frenesia quotidiana le riusciranno mai a togliere. Necessaria.
2. Petter Eldh, Post Koma (WeJazz)
L’avevamo segnalato anche con le scorse uscite del suo progetto Koma Saxo, il bassista svedese Petter Eldh, che è uno dei talenti più puri del jazz – definizione quanto mai stretta – europeo di questi anni. Rielaborando registrazioni (un po’ alla Makaya McCraven), campionamenti e i contributi dei fenomenali collaboratori (da Sofia Jernberg a Maciej Obara), lontano da quell’idea di tema-assoli-tema che per quanto elaborata e virtuosa resta spesso prigioniera di un formalismo ormai prosciugato, il produttore Eldh squarcia qui 13 brevi lacerti di luminosa bellezza. Fuoriclasse.
3. Aselefech Ashine & Getenesh Kebret, Beauties (Mississippi Records)
Inesauribile Etiopia! Questo 2023 non ha portato solo alcune strepitose tracce inedite della pianista Emahoy Tsege Mariam Gebru, morta in marzo alle soglie dei 100 anni, ma anche questa ristampa che vede protagoniste le voci femminili di Aselefech Ashine e Getenesh Kebret.
Originariamente pubblicato nel 1976, quando la golden age della musica etiopica stava volgendo al termine, a causa della fine dell’impero di Hailé Selassie e del conseguente durissimo regime del partito Derg di Mengistu, il disco vede le due voci accompagnate dall’immancabile Army Band e con gli arrangiamenti di Teshome Sisay. Voci spiraliformi e aliene, che si trasfigurano con una qualità spirituale quasi allucinatoria, ma affascinantissima. Magico.
4. Daniela Pes, Spira (Tanca Records)
Sì, lo so, lo troverete probabilmente nelle liste e classifiche di tante riviste, ma a Daniela Pes quel che è di Daniela Pes. Targa Tenco come migliore esordiente, giustamente incensata per l’originalità della sua lingua canora, nonché per la veste produttiva del suo Spira, curata da Iosonouncane, l’artista sarda ha trovato con questo disco una chiave originalissima per coniugare la sua formazione jazzistica con le urgenze soniche di questi anni, squarciando il proprio immaginario arcaico dentro un suono elettronico frastagliato e non privo di inquietudini.
Anche dal vivo efficacissima, è riuscita a riattivare una ritualità che si fa collettiva senza rinunciare all’intuizione dell’individualità. Sine qua non.
5. L’Rain, I Killed Your Dog (Mexican Dog)
Difficile definire i territori sonori praticati da Taja Cheek/L’Rain. In questo lavoro molla apparentemente la presa dall’approccio sperimentale cui ci aveva abituati e nuota in modo imprevedibile tra cantautorato pop-terapeutico (“anti-break-up” record lo definisce lei stessa), sghembe digressioni folk, fulminei inserti e a un certo punto si ha l’impressione che non sia L’Rain a muoversi in un nuovo fluido, quanto piuttosto di essere stati noi stessi risucchiati dentro al suo complesso immaginario creativo e di divenire, pezzo dopo pezzo, parte di una sensualissima, quanto crudele, trappola performativa.
Perché le canzoni sono maledettamente efficaci e ispirate e no, difficile che qualcuno a questo punto, venga a cercarci e liberarci.
6. BlankFor.ms, Jason Moran and Marcus Gilmore, Refract (Red Hooks)
Questo progetto che mette insieme il musicista elettronico BlankFor.ms, con il pianista Jason Moran e il batterista Marcus Gilmore. Partendo da un’attenta attività di pre-produzione, che ha messo in condivisione sia pezzi composti che piccoli schizzi e spunti per l’improvvisazione, BlankFor.ms si svela come un formidabile attivatore di possibilità per il trio: non solo infatti le sue intuizioni timbriche e i suoi loop sprigionano la scintilla che alimenta l’architettura di piano e batteria, ma, in una sorta di continua “rifrazione” cui fa riferimento il titolo, ne continua a restituire differenti prospettive. Iridescente!
7. Tilo Weber, Tesserae (WeJazz)
Che creatura magnifica, Tesserae di Tilo Weber, composizione e batteria, in trio con due compagni di avventura di prim’ordine come il tastierista Elias Stemeseder (che in questo disco alterna clavicembalo, celesta e sintetizzatori) e il contrabbassista Petter Eldh.
Un lavoro che colpisce per unicità timbrica e di costruzione ritmica, basato su un processo compositivo dall’architettura a strati, in cui lo spazio per l’inaspettato, l’improvvisazione, diventa parte della tessitura creativa collettiva più che un semplice momento di assolo. Segnatevi questo nome, tra i più luminosi e originali del jazz europeo di oggi!
8. James Brandon Lewis, For Mahalia, With Love (Tao Forms)
James Brandon Lewis sta diventando un vero e proprio “gigante” della musica afroamericana, Nel 2023 ha pubblicato un bel disco in trio, Eye Of I, ma soprattutto For Mahalia, With Love alla testa di quel Red Lily Quintet che già ci aveva emozionato con il precedente Jesup Wagon.
Qui Lewis e i suoi compagni di avventura (Kirk Knuffke alla cornetta, Chris Hoffman al violoncello, William Parker al contrabbasso e Chad Taylor alla batteria) reimmaginano alcuni temi resi famosi dalla mitica Mahalia Jackson.
Un disco molto personale, commovente, familiare (la Jackson era una fissazione della nonna dell’artista), antico e futuribile come il miglior jazz deve essere.
9. Marja Ahti, Tender Membranes (Black Truffle)
Still Lives è il terzo lavoro della compositrice finlandese Marja Marja Ahti. Lei stessa definisce il disco una serie di studi sulla liminalità dell'atto di ascolto e un'indagine sulla fisicità del suono. A partire da registrazioni sul campo, synth analogici, feedback acustici, nastro magnetico ed elaborazione digitale, Ahti crea dei diorami elettroacustici dentro cui sono capitato per caso e non volevo più uscirne.
Immobile e vorticoso allo stesso tempo, si può accostare con consapevole stato d’animo zen o con noncuranza – che forse sono un po’ la stessa cosa – ma anche con una consapevolezza sensoriale che non lascerà indifferenti.
10. Jaimie Branch, Fly or Die Fly or Die Fly or Die ( ( world war ) ) (International Anthem)
Come scrivevamo qui, la scioccante e prematura scomparsa di Jaimie Branch ha rappresentato qualcosa di più della semplice, per quanto terribile, perdita di un’artista di talento. Questo “testamento” ne è una conferma tanto elettrizzante quanto dolorosa.
Engagée e punk, quartomondista e cyber-Doncherriana, capace di reinventare “Comin’ Down” dei Meat Puppets così come di proiettarsi dentro fumi psych-blues con la stessa, temeraria bellezza. Lo so, la troverete in tante altre liste. Come è giusto che sia.