Un principe piccolo piccolo
Al Teatro alla Scala riporta in scena “Il piccolo principe” di Pierangelo Valtinoni con libretto di Paolo Madron dal celebre romanzo di Antoine de Saint-Exupéry
Fare opera per i bambini è un affare maledettamente complicato. Farla bene, riuscendo a coinvolgerli per un’ora di spettacolo, lo è ancora di più. Se pensare a lavori concepiti per un pubblico di giovanissimi è diventato da anni pratica comune nei teatri d’opera di buona parte del mondo, in Italia lo è molto meno. Il Teatro alla Scala è entrato nel business dal 2015 con le “Grandi opere per piccoli”, che fino alla scorsa stagione aveva presentato opere del grande repertorio in scala ridotta e con il coinvolgimento di solisti e complessi dell’Accademia Teatro alla Scala. Risale invece solo alla scorsa stagione la prima commissione di un’opera nuova di zecca scritta per quel segmento complicatissimo di pubblico che, si spera, diventerà il pubblico dell’Opera di domani: Il piccolo principe dell’ormai collaudatissimo duo fatto dal compositore Pierangelo Valtinoni e dal librettista Paolo Madron.
Dopo ben 38 recite nella scorsa stagione, il lavoro torna sulla scena del Teatro alla Scala per una quindicina di repliche anche in questa stagione. Come per gli altri fortunatissimi lavori di Valtinoni e Madron, la scelta è caduta su un grande classico letterario per i giovani lettori di tutto il mondo (sono circa 300 le traduzioni), pubblicato da Antoine de Saint-Exupéry nel 1943 e quindi postumo in francese nel 1945, un anno dopo l’abbattimento dell’aereo da lui pilotato al largo di Marsiglia da parte della Luftwaffe. In poco più di un’ora, Paolo Madron ha condensato la vicenda nel libretto scritto in versi agili e accattivanti, suo marchio di fabbrica, che, attraverso il ricordo di un aviatore precipitato nel Sahara per una panne al suo aereo, narra la vicenda di un principe bambino arrivato sulla terra dal suo minuscolo asteroide B-612 abitato solo da lui e da una rosa. Lungo il viaggio il piccolo principe incontra un vecchio re, unico abitante del proprio pianeta, che vorrebbe comandare a sudditi inesistenti, quindi una donna vanitosa che pretende applausi e ammirazione senza un perché, poi un ricco che conta le stelle sostenendo siano di sua proprietà, e infine un geografo che specula su come sia fatto il suo pianeta e che gli consiglia un viaggio sulla Terra. Nel suo girovagare sul pianeta, il piccolo principe incontra una volpe che vorrebbe essere addomesticata e quindi un serpente che gli promette di farlo tornare sul suo pianeta grazie al suo veleno. Allontanatosi alla ricerca di acqua, il pilota non trova più tracce del bambino, che, immagina, abbia fatto ritorno al suo asteroide a prendersi cura della sua rosa.
Rispetto alla cosiddetta “trilogia della ricerca” (ossia le tre opere precedenti tratte dal Pinocchio di Carlo Collodi, da La regina delle nevi di Hans Christian Andersen e da Il mago di Oz di Frank Baum), anche qui il racconto è costruito come un viaggio, topos universale della fiaba, ma il tono del racconto è più introspettivo e non mancano frequenti riflessioni e l’elaborazione del bambino di fronte alle diverse esperienze alle quali è esposto. Tale aspetto si traduce in una scrittura musicale che, benché sempre nel segno di una grande semplicità e freschezza melodica, tende a sacrificare gli aspetti più giocosi in favore di un maggiore scavo soprattutto nel protagonista. Anche l’articolazione drammaturgica è più sofisticata e meno ancorata a una struttura a numeri chiusi, nonostante l’organizzazione in un prologo, sette scene (che corrispondono grossomodo ai diversi incontri del protagonista) e un epilogo.
Peccato che al Teatro alla Scala manchi del tutto un supporto alla comprensione sia per la mancanza di soprattitoli (utili almeno ai genitori e ai bambini in età scolare) ma anche per una parsimonia di mezzi che negano la spettacolarità e inducono la regista di Polly Graham, esperta di spettacoli per giovane pubblico, a qualche ellissi narrativa di complessa decifrazione per i più piccoli. Anche la scena fissa di Basia Bińkowska è ben poca cosa – uno scheletro di aereo stilizzato su un pavimento un po’ scosceso – né aiutano troppo le luci piuttosto avare di effetti di Marco Filibeck. Eppure, se il brusio aumenta nel giovane pubblico già dopo una decina di minuti, tocca aspettare la metà dello spettacolo per vedere un cielo di stelle proiettate sul soffitto del teatro: in fondo basta poco per il solito, infallibile incanto del teatro.
Per questa ripresa Vitali Alekseenok cede il podio a Bruno Nicoli, già coinvolto nelle recite del ciclo precedente, che dirige l’Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala con attenzione particolare alla ricchezza della strumentazione di Valtinoni e a una cantabilità orchestrale che sostiene un cast vocale fatto di allievi della scuola di perfezionamento della Scala che mostra più di una fragilità, soprattutto nel comparto maschile. Fra questi, soprattutto il pilota di Giuseppe De Luca mostra una scarsa partecipazione scenica, mentre Pierpaolo Martella, nonostante una certa fragilità vocale, rende bene il piglio farsesco del re e quello insinuante del serpente, così come Hyun-Seo Davide Park è un simpaticamente tronfio uomo d’affari in cilindro sgualcito. Meglio le voci femminili di Aleksandrina Mihaylova, che è un piccolo principe appena poco sonoro ma l’acustica scaligera non aiuta, e soprattutto della multiforme Fan Zhou spiritosa donna vanitosa e rosa con spine pungenti, mentre Greta Doveri è una volpe un po’ sottotono. Impegnati, anche nei movimenti coreografici di Jenny Ogilvie, i giovanissimi del Coro di voci bianche dell’Accademia del Teatro alla Scala, ben preparati dal veterano Bruno Casoni.
La formazione di un pubblico giovane è forse la sfida culturale più importante per un teatro d’opera oggi. Da un teatro dal profilo e ambizioni elevati come la Scala sarebbe lecito attendersi un investimento adeguato alla partita in gioco.
i
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
Saltata la prima per tensioni sindacali, il Teatro La Fenice inaugura la stagione con un grande Myung-Whun Chung sul podio per l’opera verdiana
Jonas di Carissimi e Vanitas di cinque compositori contemporanei hanno chiuso le celebrazioni per i trecentocinquanta anni dalla morte del grande maestro del Seicento