Nove mesi di ascolti, nove mesi di dischi jazz: il momento giusto per mettere qualche punto fermo e per una prima conta delle uscite che hanno lasciato il segno. In un 2023 che fin qui ci ha consegnato più di una novità degna di nota, tra esordi, andate, ritorni e un minimo comune denominatore: il rapporto stretto, strettissimo, e tutt'altro che paralizzante, con la famigerata tradizione.
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Che nonostante la scarsa stima della quale sembra godere presso un certo pubblico fatto di neofiti, neo-entusiasti e neo-convertiti, che nonostante l'insopportabile ritornello del nuovo jazz che si fa largo tra la polvere e le ragnatele, in opposizione alle vetuste pratiche degli anni bui degli standard e dei virtuosismi a perdere, resta il centro di gravità permanente della musica che fu di Charlie Parker, Miles Davis e John Coltrane, l'inesauribile fonte primaria di ispirazione, in quell'eterno gioco di riposizionamenti e ripensamenti che fa del jazz il jazz.
La constatazione, che vale come premessa alla lista degli imperdibili jazz dell'anno, come spunto per ulteriori approfondimenti, arriva in scia alle riflessioni emerse dopo l'ultima edizione di Jazz Is Dead, il festival torinese che negli ultimi anni si è affermato come esempio di trasversalità e coraggio, azzerando le distanze tra ambiti che alla prova del pubblico sono sempre meno estranei.
Sorvolando pietosamente sui beceri attacchi delle ormai sparute schiere di retrogradi, rivoluzionari senza causa che berciano via social, degli auto-proclamati guardiani del lecito e della decenza – ai quali è sempre bene ricordare che il jazz è per definizione ibrido fin dai tempi di Buddy Bolden e dunque non c'è nulla di scandaloso nelle recenti mutazioni se non la benedetta conferma della sua irriducibile natura inclusiva – non si può non essere d'accordo con quanto rilevava Jacopo Tomatis a proposito dell'emergere di un nuovo ascoltatore-tipo (leggi qui la recensione di Jazz Is Dead 2023).
Un ascoltatore-tipo interessato a un'idea composita di frontiera sonora, situata nei vari punti in cui si intersecano tutta una serie di linguaggi di ricerca che spaziano tra l'elettronica colta, l'improvvisazione, il jazz di matrice neo-black (e non), le musiche del mondo, quel che resta delle avanguardie e il pop meno allineato. Lo dice il mercato (che non solo esiste ancora, ma resiste alla grande), lo conferma il ricambio generazionale in atto.
Così come la crescente attenzione dei media non di settore e il modo in cui il presente del jazz viene recepito e narrato da chi avrebbe il dovere di inquadralo esteticamente e storicamente.
Avrebbe, al condizionale, perché capita di leggerne davvero di tutti i colori. E qui torniamo all'insopportabile ritornello del nuovo che avanza al quale si accennava in apertura, alla retorica-paravento dietro alla quale ci si nasconde per dissimulare la scarsa (o addirittura nulla) dimestichezza con la materia trattata.
Storpiature, banalità e miopie che sono la premessa sbagliata alla puerile dicotomia tra il (presunto) vero jazz, quello che si sporca le mani (e che altro ha fatto il jazz nel corso di un secolo ormai abbondante di storia?), e quell'altro jazz, quello degli standard, dell'autoreferenzialità, del pubblico cimiteriale.
Da qui a cascata è tutto un fraintendere, uno storpiare, un mettere le braghe troppo strette a una storia che non ha conosciuto fratture o cesure, che si basa su un'idea peculiare di continuum e di tradizione in movimento.
Viene da chiedersi se si possa parlare con cognizione di causa di Makaya McRaven, e del catalogo International Anthem, senza avere la benché minima idea di che cosa sia l'AACM e di come si sia evoluto il suono di Chicago dai tempi di Clifford Jordan e John Gilmore (se non addirittura prima); o se sia possibile mettere in prospettiva una band come gli Irreversible Entanglements, e un talento esplosivo come quello di Moor Mother, senza passare da Amiri Baraka, dalla New York del free e della scena dei loft; o ancora se in presenza di Shabaka Hutchings sia lecito ignorare la Londra dei Blue Notes, di Dudu Pukwana, di Mongezi Feza e di Joe Harriott.
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Forse chi si riempie la bocca della parola jazz tracciando confini a proprio piacimento, sicuro di sapere dove inizia il nuovo e dove finisce ciò che si può tranquillamente consegnare al meritato oblio, non ha mai visto Rob Mazurek canticchiare a memoria i soli di Booker Little in “We Speak”; o Damon Locks emozionarsi ricordando quella volta che gli capitò di condividere il palco con Bill Dixon; o ancora Mats Gustafsson che racconta dell'unica lezione di flauto presa da Sahib Shihab; o infine Anthony Braxton con gli occhi lucidi dopo che qualcuno gli ha ricordato un concerto in quello stesso teatro con la band di Ben Webster.
Il jazz è questo: una comunità che continua a condividere, e a riattualizzare, un patrimonio di saperi e di pratiche, a dialogare attivamente con il passato, a interiorizzare l'altro, il diverso, a includere. Un genere, sì; perché i generi, intesi come ambiti identitari nei quali riconoscersi, nei quali sentirsi appunto una comunità, esistono eccome.
Il jazz è questo: una comunità che continua a condividere, e a riattualizzare, un patrimonio di saperi e di pratiche, a dialogare attivamente con il passato, a interiorizzare l'altro, il diverso, a includere.
Senza voler passare al lato oscuro dei garantisti, senza dimenticare le colpe (tante, tantissime) di chi continua ad arroccarsi nell'esoterismo delle nicchie, e stando bene attenti a non chiudere a doppia mandata le vie di accesso agli sconfinati territori del jazz, l'invito è a maneggiare con cura e consapevolezza.
Perché da grandi entusiasmi derivano grandi responsabilità.
La persistenza del piano trio
Tradizione, dicevamo. Che nel caso di quella che è la formazione tipo quando si ragiona di jazz, conta su una storia lunga un secolo e dintorni. Eppure la combinazione tra pianoforte, contrabbasso e batteria, diventata predominante a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, riesce ancora a parlare al presente, aggiornando costantemente equilibri e dinamiche, alfabeto e sensibilità.
Ascoltare per credere l'ultimo capitolo della trilogia "standard" di Tyshawn Sorey, iniziata con il sorprendente Mesmerism, proseguita con il monumentale live The Off-Broadway Guide to Synergism e approdata di recente, grazie alla sempre sia lodata PI Recordings, al meraviglioso Continuing.
Quattro i brani che sforano i dieci minuti: Wayne Shorter ("Reincarnation Blues", periodo Jazz Messengers), Ahmad Jamal ("Seleritus"), Harold Mabern ("In What Direction Are You Headed", passata anche dal repertorio dell'ultimo Lee Morgan) e una versione magica di "Angel Eyes". Un saggio di controllo, di consapevolezza, di sensibilità che tocca vette sublimi nei passaggi più diradati e pensosi; merito della maestria assoluta di Sorey, batterista semplicemente inarrivabile, della solidità al contrabbasso di Matt Brewer, ma anche dell'inventiva del pianista Aaron Diehl, che si conferma compagno di strada ideale quando c'è da ripensare la tradizione. Disco dell'anno o giù di lì.
Piano trio senza se e senza ma anche per David Virelles, riferimento ormai consolidato della generazione di mezzo (quella dei figliocci di Vijay Iyer e Craig Taborn, tanto per intenderci); al suo fianco il contrabbassista Ben Street e il batterista Eric McPherson, mentre il certificato di garanzia è timbrato dalla svizzera Intakt (che dopo un periodo di preoccupante involuzione è tornata a respirare l'aria buona della scena internazionale).
In Carta ritroviamo gli immancabili rimandi al patrimonio inestimabile delle musiche afro-caraibiche, alle radici cubane; l'ennesimo ritorno a casa che non fa una grinza dal punto di vista della lucida espressività con la quale il trio si confronta con i brani in scaletta, quasi tutti scritti da Virelles con il consueto gusto per gli spigoli, per le imboscate ritmiche, per le soluzioni oblique. Dall'irresistibile "Tiempos" alla trascinante "El Tivolí", la conferma di una visione perfettamente a fuoco del concetto di tradizione in movimento, che da Bud Powell e Horace Silver si proietta verso il futuro.
Infine l'inglese Alexander Hawkins, altro pianista in costante ascesa. Siamo sempre in casa Intakt e il trio è quello (di lunga data) completato da Neils Charles (contrabbasso) e Stephen Davis (batteria). Carnival Celestial è un'opera inquieta, mobilissima, labirintica (le spire di composizioni ossessivamente circolari come "Puzzle Canon" non lasciano scampo), dalla matrice cubista, dall'inclinazione vagabonda; con un pizzico di elettronica (come nel brano che dà il titolo al disco, tra i punti più alti della scaletta) e qualche pennellata di synth a complicare il quadro astratto di una modernità frammentata, di uno specchio rotto (e oscuro) dentro il quale si riconosce comunque il profilo di un jazz di ascendenza post-free, che dagli anni Sessanta sembra aver ereditato il peso sonoro, la densità. Andrew Hill e Cecil Taylor apprezzerebbero.
Sweet Home Chicago
Prima tappa nella città del vento: Rob Mazurek. In versione Exploding Star Orchestra. Lighting Dreamers è il titolo del seguito dello straordinario Dimensional Stardust, uscito a fine 2020 sempre per International Anthem (e dove, se no?). A fianco del signor Chicago Underground un drappello di fedelissimi: Craig Taborn, Jeff Parker, Damon Locks, Angelica Sanchez, Nicole Mitchell, Gerald Cleaver e Mauricio Takara.
Tutti insieme tra gli anelli di Saturno e i satelliti di Giove, seguendo le rotte tracciate al tempo dei primi viaggi spaziali dall'Arkestra di Sun Ra. In particolare i 14 minuti abbondanti di "Black River" sono forse l'omaggio più esplicito di Mazurek al conquistatore di tutte le frontiere intergalattiche, tra gigantesche nubi di pulviscolo sonoro e agglomerati di comete scintillanti. Il resto è la "solita" post-Chicago che trova ulteriori nuovi modi di rimettersi in discussione e di aprirsi al mondo.
Come nel caso di New Future City Radio, altro progetto targato International Anthem della coppia Rob Mazurek/Damon Locks. L'idea, come suggerito dal titolo, è quella di una radio immaginaria che trasmette sulle frequenze della Chicago (afro)futurista. Ritagli di sampler e scampoli di groove si combinano e si intrecciano per dare vita a una serie di ipotesi sonore, a riflessi di quasi-brani che scompaiono nel momento stesso in cui si prova a decodificarli. Un altro tassello del mosaico Mazurek, tra i cantori più ispirati della persistenza del jazz, e un altro saggio della visione sempre più centrata del profeta dell'impossibile Damon Locks.
Qui Chicago anche nel caso degli Irreversible Entanglements e del disco postumo di Jaimie Branch: Protect Your Light lo mette in catalogo la Impulse!, una sorta di approdo naturale per il quintetto che in realtà si è formato tra New York, Washington e Philadelphia, ma che sulle rive dei Grandi Laghi ha trovato il microclima ideale per diventare un vero e proprio fenomeno globale; Fly or Die Fly or Die Fly or Die ((world war)) ci riporta invece in casa International Anthem ed è il punto esclamativo sullo straordinario percorso umano e artistico di Jaimie Branch (scomparsa nell'agosto del 2022).
Di entrambi si è già scritto con dovizia di particolari in separata sede, a conferma dell'attenzione che sia gli Irreversibile che la Branch sono riusciti a calamitare; qui preme solo ricordare come la matrice era e resti profondamente jazz. Anche nel caso delle traiettorie ibride del quartetto Fly or Die, protagonista di una delle uscite più emozionanti e intense di questa prima parte di 2023.
Infine un doppio suggerimento. Fresco di stampa In the Garden..., il quinto capitolo della saga Coin Coin della sassofonista Matana Roberts (Constellation), in arrivo The Separatist Party del batterista Mike Reed (pubblicato dalla finlandese We Jazz). In entrambi i casi c'è più di un buon motivo per non lasciarseli scappare ("Your Soul" di Mike Reed, anteprima di quello che sarà, vale da sola il prezzo del biglietto).
Brooklyn resistente
C'è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui sembrava che tutte le strade portassero a Brooklyn. Le cose poi però si sono complicate, e come sempre accade, il jazz ha scelto di fare di testa sua (oggi sono gli Irreversible Entanglements a dettare la linea nel vasto mondo là fuori e non certo Mary Halvorson: chi l'avrebbe mai detto anche solo dieci anni fa?).
Brooklyn però non ha smesso di fare scena, continuando a funzionare da formidabile aggregatore di talenti. Un paio di esempi. Illegal Crowns è il nome scelto da Tomas Fujiwara, Taylor Ho Bynum, Mary Halvorson (appunto) e Benoît Delbecq per il quartetto di stelle tenuto a battesimo dalla Out of Your Head Records con l'uscita di Unclosing.
Siamo in piena estetica Brooklyn fin dall'iniziale "Crooked Frame", che decolla sulle ali del drumming ipercinetico di Fujiwara prima di consegnare all'ascoltatore un tema tutto spigoli e incastri, preciso al millimetro nella sua andatura da jazz inquieto e urbano. Ma anche il resto del disco fila via che è un piacere, tra giochi timbrici ("Unclosing"), pseudo-ballad al retrogusto di piano preparato ("Fading Wave"), languidi esercizi di astrazione ("Soul of the Grey") e cadenze marziali ("G. Ocean).
Ancora più denso Brutalovechamp, esordio firmato Pyroclastic Records degli Epic Proportions del chitarrista Brandon Seabrook. Brooklyn c'è e si sente, ma la singolarità delle combinazioni timbriche (violoncello, banjo, vibrafono, due contrabbassi, mandolino, glockenspiel, clarinetti assortiti, elettronica, voci, campane, gong), oltre alla complessità della scrittura, rendono l'ascolto una continua, frenetica sequela di sorprese e di incidenti. Un agguato dopo l'altro, in una corsa a perdifiato sulla pedana di un circo di ispirazione dadaista. Il cappellaio matto Seabrook non ci risparmia niente, costringendo l'ascoltatore a stare appresso alle sue fantasie sonore più inconfessabili (compresi gli improbabili rimandi al folklore orientale e le esplosioni di puro caos). Crederci o passare la mano.
Si fa presto a dire orchestra
La prima volta di Steve Lehman, la conferma di Gard Nilssen. Iniziamo dal sassofonista americano, che sotto l'egida della fidata PI Recordings si cimenta con un ensemble allargato: Ex Machina fotografa il lavoro in studio sul materiale sviluppato con Frédéric Maurin e affidato alla francese Orchestre National de Jazz.
Le coordinate di base non cambiano, soprattutto rispetto ai due fondamentali lavori dell'ottetto: la consueta matrice eurocolta, che passa dai dichiarati agganci con lo spettralismo, gli interventi in tempo reale affidati all'elettronica e il corposo bagaglio di esperienze avanguardiste in ambito improvvisativo (riecheggia un non so che di Threadgill, ma viene da pensare anche a Steve Coleman).
Insomma, lo Steve Lehman che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi due decenni, durante i quali si è affermato come una delle voci più radicali e intransigenti del nuovo jazz. Con lui due fedelissimi come Jonathan Finlayson (tromba) e Chris Dingman (vibrafono), per un disco denso, mirabilmente pensato e strutturato (dicono tutto gli incastri ritmici di "Los Angeles Imaginary"), minuzioso, affilato, cristallino nelle intenzioni, a tratti trascinante (spettacolari i quasi nove minuti della seconda parte di "Speed Freeze"), spesso sorprendente ("Jeux D'Anches"). Centro pieno, ma non avevamo dubbi.
Di tutt'altro genere Family, che segna il ritorno sulle scene della Supersonic Orchestra del batterista norvegese Gard Nilssen (garantisce la finlandese We Jazz). Bastano una manciata di secondi dell'iniziale "The Space Dance Experiment" per capire dove siamo: sezione ritmica extra large (tre batterie più tre contrabbassi), riff micidiali, impatto da fanfara, assoli a rotta di collo. C'è il free incendiario degli anni Sessanta, c'è Albert Ayler che se la gode ("Spending Time With Ludde"), ci sono John Coltrane ("Letter to Alfred"), l'inevitabile Ornette Coleman, l'Art Ensemble, Mingus ("SP68"), la famiglia allargata della Brotherhood of Breath, Kenny Clarke, Francy Boland e alcuni dei migliori musicisti scandinavi (Mette Rasmussen, Kjetil Møster, Goran Kajfes, Perer Eldh, Ingebrigt Håker Flaten, Hans Hulbækmo). Cosa stavate facendo la sera dell'8 ottobre 2022? Io non ne ho la più pallida idea, ma chi sedeva tra il pubblico del Mondrian Jazz Festival, a Den Haag, in Olanda, di sicuro se lo ricorda.
Ancient to the future
La storia, si diceva un po' più sopra. From the Dancehall to the Battlefield è il racconto in musica della vita di James Reese Europe, mitico bandleader della New York degli anni Dieci del Novecento, partito dall'Alabama e arrivato fino in Francia, in coda alla Grande Guerra, per diffondere il verbo dei nuovi ritmi sincopati. La firma sul disco, prodotto per la sua Yes Records, è quella del pianista Jason Moran, che non si accontenta di celebrare la figura di Europe ma chiama in causa una lunga serie di spiriti guida: Albert Ayler, Randy Weston, Geri Allen, W.C. Handy, Shelton Brooks, persino Pauline Oliveros.
Il risultato? Un affresco grandioso che copre una vastissima area espressiva, dal ragtime al free, dal jazz orchestrale delle origini al blues e alle composizioni per marching band. Ancora e motore la solidità del trio Bandwagon (Tarus Mateen al basso, Nasheet Waits alla batteria: formazione che ha più di vent'anni), allargato nei passaggi più ambiziosi a un settetto di ottoni e ance. Il jazz nel suo continuum spiegato con incredibile facilità e forza straordinaria.
La vita che ci raccontano James Brandon Lewis e il suo Red Lily Quintet (che già si era messo in luce nel bellissimo Jesup Wagon) è invece quella di Mahalia Jackson. For Mahalia, with Love assume le sembianze dell'accorata dedica fin dal titolo, anche se c'è un motivo strettamente personale nella scelta di rendere omaggio alla regina del gospel, che il sassofonista di Buffalo ha imparato a conoscere e ad amare grazie alla nonna. Un affare di famiglia, insomma. Che fin dall'iniziale "Sparrow" sa di struggente celebrazione delle radici, di rito religioso, di predica dal pulpito della grande storia. Con William Parker al contrabbasso, Kirk Knuffke alla cornetta, Chad Taylor alla batteria e Chris Hoffman al violoncello, un'incursione a tutta anima nel repertorio della Jackson, da "Swing Low" a "Go Down Moses", da "Deep River" a "Elijah Rock", con Albert Ayler come cerimoniere e la fire music come bussola.
Da questa parte dell'Atlantico
In ordine sparso. Di nuovo la finlandese We Jazz, forse l'etichetta che più di ogni altra sembra avere trovato la chiave giusta per raccontare il presente, con il trio del contrabbassista svizzero Lukas Traxel, affiancato dal connazionale Moritz Baumgärtner alla batteria e dallo svedese Otis Sandsjö al sax tenore. Assetto classico, per un disco solidissimo negli intenti, perfettamente a fuoco. One-Eyed Daruma si divide tra momenti di intenso raccoglimento (la dolcissima "First Timer", "Empty Seat") e improvvise accelerazioni ritmiche ("The Call", "Nasty People"): un esempio perfetto di come si possa stare dentro la tradizione senza sentirsi incatenati al già detto e al già fatto.
Discorso che vale anche per il quartetto Emong del chitarrista Michele Bonifati, completato da Manuel Caliumi (sax tenore e contralto), Federico Pierantoni (trombone) ed Evita Polidoro (batteria e voce). Three Knots è il titolo del disco uscito per Nusica.org, una sorpresa solo per chi negli ultimi anni non ha seguito da vicino le traiettorie in costante ascesa dei musicisti in questione. Dove siamo? Da qualche parte tra il Bill Frisell dei grandi affreschi "americani" e la New York della scena Downtown.
Giusto un paio di coordinate che però non esauriscono la questione della singolare identità della band, che piazza in scaletta anche una cover di "Working Class Hero" (splendida) e "Settle for Nothing" dei Rage Against the Machine; tanto per far capire che tra le nove tracce ci sono mondi su mondi da navigare, lasciandosi conquistare da un esordio di grande impatto, prezioso, dettagliato, ispiratissimo nella scrittura, che procede a folate, trascinato dalla voglia di raccontare, di schiudere orizzonti. Applausi.
Ultima tappa. Il Portogallo del batterista Mário Costa, immortalato dalla Clean Feed in compagnia di Cuong Vu (tromba), Benoît Delbecq (pianoforte ed elettronica) e Bruno Chevillon (contrabbasso). Chromosome è un'istantanea di quello che potrebbe (e dovrebbe) essere il concetto di mainstream, ancorato a un'immediata riconoscibilità, certo, ma non per questo condannato a ripetersi all'infinito.
Ci sono urgenza e slancio tra i saliscendi del brano che dà il titolo al disco, c'è la ferma volontà di forzare lo strutture dall'interno nell'incedere nervoso di "Moonwalk" (che spettacolo il contrabbasso di Chevillon), ci sono grande gusto ed eleganza nel modo in cui il quartetto si destreggia tra i preziosismi di "Antipodes".
Jazz, jazz e ancora jazz: chiamiamolo... anzi: chiamatelo con il suo nome e prendetelo sul serio.