Semele, la sposa in nero
Un trionfo per il nuovo allestimento dell’opera di Händel prodotta dall’Opera di Stato bavarese al Prinzregententheater per i Münchner Festspiele
Chiude con un autentico trionfo l’ultima delle due nuove produzioni dell’Opera di Stato Bavarese nell’ambito dei Münchner Festspiele, la tradizionale rassegna d’estate che conclude la ricchissima stagione del teatro. Dopo l’Hamlet di Brett Dean al Nationaltheater, come da anni succede l’ultima parola spetta al teatro barocco, che quest’anno è quello della Semele di Georg Friedrich Händel, andata in scena nello spazio più raccolto del Prinzregentheater, piccolo gioiello di architettura teatrale del primo Novecento ispirato al wagneriano Festspielhaus di Bayreuth.
Opera o oratorio? Per il regista Claus Guth non ci sono dubbi: Semeleè un’opera a tutti gli effetti, non tanto per il soggetto di origine non biblica ma per l’intreccio intrinsecamente teatrale, esaltato in un allestimento avvincente nel suo originale e incalzante sviluppo drammaturgico, che tiene inchiodato il pubblico per quasi quattro ore e mezza (intervalli compresi). Ovvio che la dimensione mitologica interessi poco Guth, che trasforma in una favola nera la vicenda della figlia del re Cadmo, sposa promessa al Principe di Beozia Atamante ma attratta più da Giove, suo amante, e soprattutto dall’ambizione di diventare dea lei stessa. Secondo Guth, Semele somiglia più a un’eroina tragica come Lucia, con la quale condivide la follia. Come Lucia, Semele non accetta le nozze impostole dal padre Cadmo sognando, già dall’Ouverture, un’unione con Giove, annunciato da una piuma nera nel bianco abbacinante del salone destinato alla festa. Come Lucia, anche Semele è in fuga, qui anche cromatica, dal bianco della realtà verso il nero del sogno o piuttosto del delirio. Nero è Jupiter e la sua corte, sinistramente rappresentati come aquile dalle piume nerissime e lucide (i bellissimi costumi sono di Gesine Völlm), che sembrano più i corvi cari a Wotan. Quel nero via via inghiotte il senso della realtà di Semele spingendola nel baratro della follia e precludendole ogni possibilità di salvezza.
La dimensione psichica emerge chiaramente nella scelta di uno spazio unico per la vicenda, cioè un sontuoso salone illuminato da un enorme lampadario di cristallo e lampade alle pareti (lo scenografo è il bravissimo Michael Levine), funzionale al frenetico balletto di ospiti e camerieri (le spiritose coreografie sono di Ramses Sigl) nelle celebrazioni delle nozze reali. Quello spazio è “sporcato” da visioni presaghe (le efficaci proiezioni video sono di rocafilm) e quindi occupato dal nero piumato del mondo di Jupiter, prima attraverso la breccia aperta da Semele a colpi d’ascia e quindi dai molti varchi aperti nella psiche della protagonista.
In questa visione, certamente radicale ma realizzata con mano leggera e un’insospettabile dose di “sense of humour” da parte di Guth, la bipolarità della protagonista si proietta nelle due figure maschili di Jupiter, già ben servito da Händel, e Athamas, che assume un peso molto maggiore in questa versione, soprattutto nel secondo atto, con il suo coinvolgimento nel regno della tenebra. È lui che interpreta la tenera aria di Cupido “Come, Zephyrs, come, while Cupid sings”, quasi una ninna nanna per lenire i tormenti della donna amata, ed è lui il protagonista del festino arcadico approntato da Jupiter reinterpretato in una surreale contesa coreografica, con tanto di numero di breakdance ritagliato sulla formidabile prestanza fisica di Jakub Józef Orliński, festeggiato da applausi entusiasti.
Orliński, voce non amplissima ma utilizzata con una gamma espressiva insolitamente ampia per un controtenore, comunque, è solo uno dei tanti straordinari interpreti che partecipano al successo di questa Semele. Annunciata sofferente, Brenda Rae dà comunque il massimo sia sul piano scenico sia su quello vocale, rivelando solo qualche smagliatura del tutto perdonabile. Smagliante anche la prova come Jupiter di Michael Spyres, voce tenorile ampia e dalla timbrica molto omogenea e anche lui attore di doti non comuni. Benissimo anche la Juno di Emily D'Angelo, ben caratterizzata anche se penalizzata da una proiezione vocale non del tutto adeguata, e la formidabile “segretaria” Iris di Jessica Niles, autentico talento comico ma anche vocalista raffinata. Ino è Nadezhda Karyazina, voce non enorme ma espressiva, mentre in diretta concorrenza con Orliński sembra essere l’atletico e comicissimo Somnus di Philippe Sly, che è anche un più sobrio re Cadmus, messo un po’ in ombra dagli altri ma non meno incisivo quanto a resa vocale. Servono bene i loro ruoli anche Milan Siljanov come sacerdote di Juno e Jonas Hacker come Apollo. Assolutamente straordinaria la prova del coro LauschWerk, superbamente preparato da Sonja Lachenmayr: prende attivamente parte all’azione scenica ma la prestazione vocale è sempre impeccabile e potente.
L’esperto Gianluca Capuano guida dal cembalo la Bayerisches Staatsorchester con strumenti moderni ma secondo un gusto intonato alla odierna prassi storicamente informata con l’apporto anche di un robusto basso continuo. Le invenzioni strumentali si sprecano sempre nel segno di una teatralità molto spiccata. Una fra tutte: il rilievo dato al tamburo nel primo tempo della sinfonia di apertura, che diventa quasi una marcia funebre, efficace “flash forward” sull’amaro destino della protagonista.
Tutto esaurito. Accoglienza trionfale con oltre dieci minuti di applausi e chiamate.
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