La prima volta a Roma dell’ultima opera di Janacek
“Da una casa di morti” con la regia ipercinetica di Warlikowski e l’ottima direzione di Matvienko
L’Opera di Roma sta recuperando il suo ritardo - comune a vari altri teatri italiani - nella presentazione delle opere di Leos Janacek. L’anno scorso è stata la volta di Katia Kabanova e adesso di Z mrtvého domu (Da una casa di morti), l’ultima opera del compositore ceco, che alla sua morte nel 1928 lasciò incompiute alcune parti dell’orchestrazione del terzo atto, poi completate da due suoi allievi e collaboratori, che si presero la libertà di cambiare totalmente il finale originario, recentemente ripristinato dall’edizione critica, pubblicata nel 2017 ed eseguita in quest’occasione.
Fu lo stesso Janacek a redigere il libretto, ricavandolo dal romanzo Memorie dalla casa dei morti di Dostoevskij, che descrive la vita dei condannati in un campo di lavoro siberiano: dunque un romanzo parzialmente autobiografico, perché lo scrittore russo scontò quattro anni di detenzione per il suo coinvolgimento in un’organizzazione progressista che si opponeva al regime degli zar. A parte due o tre brevi passaggi, non c’è una riga del libretto che non derivi direttamente dal romanzo, perché Janacek si è limitato a eliminare - com’era inevitabile per ragioni di durata - ampie parti del romanzo e a modificare la successione e la giustapposizione degli episodi preservati. Ne nasce un quadro della vita senza speranza dell’umanità rinchiusa in quella “casa di morti”, in un’alternanza di scherzi camerateschi e di improvvisi scoppi di violenza, di solidarietà e di odio, di nostalgia della vita precedente e di disperazione. E tutto si svolge sotto la sorveglianza e le angherie del comandante del carcere e delle guardie, privi di ogni senso di umanità.
È un’opera corale, i cui numerosissimi personaggi sono, con alcune eccezioni, figure sostanzialmente anonime, di cui possiamo conoscere il nome soltanto leggendo il libretto. Né esiste un vero svolgimento drammatico, perché quale sviluppo può esserci in questo mondo chiuso, in cui ogni giorno è uguale all’altro? A Janacek interessa piuttosto indagare la psiche dei personaggi e mostrare come questa vita che non è vita influisca sui loro comportamenti e sui loro pensieri. A portare un minimo di varietà nel mondo grigio e cupo di quegli uomini abbrutiti e ridotti a poco più che larve umane sono una recita del Don Giovanni, reinventato dai reclusi in modo ovviamente personale e sgangherato, ed una prostituta – in questa casa di morti il degrado e coinvolge tutti, uomini e donne –autorizzata ad offrire i propri servizi ai prigionieri.
La drammaturgia di quest’opera è molto semplice e allo stesso tempo molto difficile, perché è fatta di nulla, in quanto tutto ciò che veramente conta si svolge nell’animo dei personaggi e le azioni sono ridotte al minimo, senza nulla di teatrale nel senso comune della parola. A firmare quest’allestimento è uno dei grandi registi dei nostri giorni, il polacco Krzysztof Warlikowski, al suo debutto in Italia, che si è avvalso della collaborazione del drammaturgo Christian Longchamp (il contributo di questa figura sconosciuta in Italia è sempre imponderabile) e di Margorata Szczesniak per la scena pressoché fissa e per i costumi, l’una e gli altri necessariamente squallidi, dovendo rappresentare un ambiente carcerario. I cantanti recitano come attori consumati, ogni movimento è perfettamente calcolato e realizzato, nulla è lasciato all’approssimazione e al caso e questo è il segno che siamo in presenza di un regista che conosce benissimo il mestiere. Il problema è che, preso da una sorta di horror vacui, Warlikowski riempie il palcoscenico con una folla in continuo movimento, per di più con una gestualità esagerata, quasi caricaturale, agli antipodi della tragica solitudine e della desolazione in cui vivono i personaggi di quest’opera. E si balla molto, in stile break dance, perché - è superfluo dirlo - l’ambientazione è moderna. Questo continuo bailamme in palcoscenico è in contrasto con le atmosfere di un’opera in cui solitudine, rabbia, nostalgia e disperazione sono le vere protagoniste di quest’opera.
Anche durante i preludi orchestrali dei tre atti Warlikowski non lascia il campo alla musica di Janacek, ma proietta su un grande schermo tre spezzoni di vecchie interviste: la prima a Michel Foucault, che accusava (ovviamente l’audio era azzerato e si dovevano leggere le sue parole nei sottotitoli) la funzione politica e autoritaria dei tribunali, le altre due ad un condannato a morte, che narrava il suo stato d’animo in attesa dell’esecuzione della sentenza. Sono interviste eccezionali e toccanti ma, nonostante parlino di giudizi e di condanne, hanno pochissima affinità con quel che Janacek intendeva esprimere nella sua opera.
Tutto questo rende difficile prestare la dovuta attenzione alla musica, ma di questo i registi raramente si preoccupano e chi si mostra insoddisfatto passa per retrivo. Invece quest’opera andrebbe ascoltata con grande concentrazione, poiché è una partitura densa di significati e, nonostante la tinta di fondo apparentemente uniforme, è una miniera di colori strumentali e d’invenzioni ritmiche e armoniche. Il giovane direttore bielorusso Dmitry Matvienko l’ha diretta magnificamente, con una maturità e una padronanza dell’orchestra sorprendenti per la sua età, ed ha ottenuto dai complessi dell’Opera una risposta di grande livello. Nella folta e ottima schiera dei cantanti dobbiamo limitarci a segnalare quelli la cui parte emergeva dallo sfondo corale del gruppo: Mark S. Doss, Pascal Charbonneau, Stefan Margita, Erin Caves, Julian Hubbard, Marcello Nardis, Ales Jenis, Clive Bayley.
Il pubblico dell’anteprima, tra cui moltissimi erano gli studenti, ha applaudito con convinzione, ma senza grida entusiastiche che mal si sarebbero conciliate con le cupe atmosfere di questo capolavoro dell’opera del Novecento.
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