Torino Jazz Festival 2023, segue il dibattito

Si è chiusa l'edizione 2023 del TJF: qualche riflessione sui festival pubblici

Torino Jazz Festival 2023 Bilancio
Stefano Zenni presenta il Danish Trio di Stefano Bollani
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Si è chiuso un paio di giorni fa il Torino Jazz Festival, giunto alla sua undicesima edizione. E – come da undici edizioni a questa parte, e più di ogni altro festival in Italia – il TJF sembra essere sotto analisi da parte di osservatori, critici e politici.

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È giusto che sia così: è un grande festival pubblico, tenuto su dai famigerati “soldi dei contribuenti”, e dunque deve aprire ogni anno il dibattito su come dovrebbe essere concepito un festival jazz di questo genere, a quale tipo di pubblico dovrebbe guardare, quali obiettivi dovrebbe porsi.

In fondo, si tratta dello stesso dibattito che riguarda la natura delle molte musiche che oggi possiamo chiamare “jazz”, e che da qualche anno a questa parte si sono imposte come repertori culturalmente accreditati nei circuiti del pubblico, a fianco della musica classica – con i problemi e le sfide che ne conseguono.

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Per il 2023 l’attenzione era anche maggiore perché, dopo un quinquennio di gestione di Giorgio Li Calzi e Diego Borotti, al timone è tornato Stefano Zenni, che aveva preso in mano il festival al suo secondo anno di vita impostandone di fatto la linea.

Nulla di male, in sé, nel fatto che amministrazioni diverse puntino su direzioni artistiche diverse. La critica a questo genere di operazioni in stile spoil system semmai è che non necessariamente sono in grado di garantire una continuità di direzione e di gestione, con i problemi sia politici sia artistici che ne conseguono (e in questo caso specifico, ci sarà modo di aggiornarsi nei prossimi anni per tentare un bilancio…).

Zenni, in ogni caso, era chiamato a confrontarsi con anni caratterizzati da un buon livello di programmazione, con punte di eccellenza (ad esempio l'edizione 2021). Alla vecchia direzione artistica va anche il bonus di aver tenuto la barra dritta in mezzo alla tempesta Covid, e di aver saputo impostare economicamente il futuro grazie a un sostegno del Ministero per tre anni. 

Il programma 2023 è stato di alto livello, originale nelle scelte e orchestrato per soddisfare gusti diversi, senza cadute di stile o concessioni ai nomi più di cartello. Zenni ha sapute tenere insieme progetti più “giovani” e cool (Shabaka Hutchings intercettato all’ultimo, Sarathy Korwar…) con i vecchi leoni (Kenny Barron), le punte del jazz più “di ricerca” (Eve Risser, Steve Coleman, Craig Taborn) con quel jazz mainstream “da assessori” che va per la maggiore oggi in Italia, e che sembra obbligato in ogni festival nazionale. Anche qui, però, la presenza del prezzemolino Bollani è stata contestualizzata con un palinsesto originale, con un “Bollani Day” e diversi progetti (fra cui il Danish Trio) per la Giornata internazionale del jazz.

Come sempre, quando ci si trova ad avere a che fare con un festival di queste dimensioni e ambizioni – per giunta nella città in cui si vive e si lavora, e senza la possibilità di pensarlo come una “vacanza” – si finisce per seguire eventi sparsi, e per perdersi molto. A questo problema “strutturale” si somma una vita culturale torinese che dopo un letargo di mesi si è risvegliata di botto con la primavera, con eventi un po’ ovunque. 

Un po’ è casualità: ad esempio, “l’altro” grande festival “jazz” cittadino – Jazz Is Dead – si è trovato a programmare la sua anteprima il giorno prima dell’inizio del Torino Jazz Festival per approfittare del rarissimo passaggio italiano di Jim O’Rourke e Eiko Ishibashi (ne parliamo qui). 

Un po’ è – francamente – frutto di scelte incomprensibili o di poco coordinamento. Che senso ha organizzare un concerto di Vinicio Capossela, gratuito, per il 25 aprile, in controprogrammazione con il TJF, entrambi finanziati da soldi pubblici?

L’effetto bulimia è comunque strutturale in eventi come il TJF, e come ogni anno ci si può chiedere se sia un tipo di politica culturale che fa bene alla “scena” perché le offre una visibilità che altrimenti non avrebbe, o se finisca con il drenare risorse dal resto dell’anno per strizzarle tutte in una settimana.

Sono probabilmente vere entrambe le cose, come sembrerebbe dimostrare la sensazione di improvvisa alluvione nelle agende degli appassionati di musica in città, dopo mesi di totale siccità. Eppure, i nudi numeri ancora una volta sembrano dare ragione a chi programma a tutto spiano e ovunque. Al di là del conto dei singoli spettatori – esercizio che non ha molto senso in festival che offrono concerti gratuiti o a prezzo convenzionato – le sale (almeno per quanto ho potuto verificare in prima persona) erano comunque quasi sempre piene, nonostante le location fossero in molti casi piuttosto distanti fra loro, e scoraggiassero l’infilata di più concerti consecutivi nella stessa giornata. 

Insomma, la formula sembra essere ormai consolidata, e la “nuova” gestione ha subito ritrovato una sua linea. L’appuntamento è al prossimo anno, per proseguire il dibattito.

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