Con la produzione musicale ormai costantemente in direzione de-materializzata e nella quale il vinile sembra rivestire un ruolo di prestigiosa eccezione, buona per statistiche, ascoltatrici e ascoltatori forti e hipster, quando ci si imbatte in un nuovo lavoro in cui sia l’elemento musicale che quello legato al formato e al packaging sono profondamente studiati e rilevanti, non si può non provare un senso di grande entusiasmo e stimolo.
Che questo accada con un’etichetta come Die Schachtel (che da sempre ci ha abituato a considerare i dischi delle vere e proprie opere d’arte) e con un artista come Stefano Pilia non stupisce.
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Il chitarrista e compositore della scena bolognese si è infatti sempre distinto per l’eclettismo e la rigorosità del suo approccio, sia in ambiti avant-rock che in quelli più sperimentali e ha già inciso con la label milanese alcuni interessanti lavori, in particolare il bel solo In Girum Imus Nocte Et Consumimur Igni e il recente duo elettroacustico con John Duncan.
Il nuovo lavoro si intitola Spiralis Aurea e ci porta, con combinazioni di strumenti e musicisti differenti (ci sono Alessandra Novaga e Enrico Gabrielli, Adrian Utley e Iosonouncane tra gli altri), all’interno del mondo compositivo di Pilia, un mondo in cui convivono aspetti di profonda spiritualità insieme a altri di tipo simbolico e geometrico.
Si tratta di un disco di intrigante fascino sonoro, costruito con meticolosa complessità (e richiedente una corrispondente meticolosa, ma sublime negli esiti, attenzione di ascolto) e perfettamente condotto, sia che si tratti di tracce di violoncello sovrapposte, come in “CRUX”, sia che entri in gioco il suono dell’organo (come in “CODEXIII (+)” o “ASCENSIO”, così come nella ipnotica “OUROBOROS”, costruita su campionamenti), mentre la chitarra compare solo nella sospesa semplicità di “HANNAH” - con la Novaga e Utley - e nei meravigliosi sgocciolamenti di “CODEXIII (())”.
Un lavoro che guida verso momenti di disarmante commozione, in cui gli ingranaggi fanno baluginare l’oro dei dettagli, un lavoro che svela intimità e confronto con stati di consapevolezza che ciascuno poi declina a seconda della propria sensibilità, ma in cui la concezione compositiva di Pilia si staglia con emozionante nitore.
Per capire meglio il progetto abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Stefano Pilia, ma anche con Bruno Stucchi, che ha curato l’artwork del disco che esce in doppio vinile color oro in edizione deluxe limitata a 250 copie.
In questo lavoro è centrale il tuo lato compositivo, tanto che come esecutore compari solo in alcuni brani: cosa ti spinge verso la composizione e come sono emerse le differenti combinazioni di organico che troviamo nei brani del disco?
Stefano Pilia: «Credo si tratti di una necessità creativa alimentata dal desiderio di conoscenza e comprensione: è attraverso l'atto creativo che sento la possibilità di avvicinarmi forse a un senso più completo dell'esistenza, non tanto come occasione espressiva, ma piuttosto come possibilità di comprensione e di partecipazione profonda alla vita, al senso spirituale e religioso dell' esistenza.
James Hillman, con sintesi illuminante, direbbe “del fare anima”. Il mio approccio allo stesso strumento è sempre stato fortemente caratterizzato da istanze innanzitutto compositive. Lo strumento è per me un canale, un mezzo per realizzare necessità e possibilità compositive. Ma allo stesso tempo, una specifica pratica artistica – che si tratti dell'arte di suonare uno strumento, o dell'arte di registrare e manipolare i suoni – conferisce inevitabilmente caratteristiche e direzioni determinate dallo strumento stesso, implicite e in qualche modo forse anche ineludibili».
Quanto ti ha influenzato e stimolato questa constatazione?
S. P.: «Si genera nella pratica una relazione erotica affascinante e potente che determina gesti e direzioni e in parte nella storia li cristallizza anche come stili o linguaggi.
Per molto tempo ho immaginato la mia pratica compositiva come analoga a un lavoro pseudo alchimistico: cercare nella materia sonora, trovare un indizio da cui poi estrarne una figura o liberarne un immagine, sublimare una forma o addirittura ricostruire una via meta-narrativa a partire dagli elementi trovati. In sintesi una via in cui è il contatto e la relazione con la materia sonora a suggerire fortemente la direzione compositiva».
«Per molto tempo ho immaginato la mia pratica compositiva come analoga a un lavoro pseudo alchimistico».
«Questa modalità finiva però inevitabilmente per rispecchiare sempre troppo di me stesso e delle mie decisioni espressive. L'opera, soprattutto in termini formali, non riusciva ad emanciparsi fino in fondo, come se io stesso in parte la schiacciassi sotto il peso delle mie intenzioni».
È un pensiero tutt’altro che scontato, dato il peso che l’ego riveste nella creazione artistica…
S. P.: «In questo ho iniziato a sentire un limite per me invalicabile, che solo abbandonando tale relazione con la materia sonora come “trigger” dell'atto compositivo avrei potuto superare. Prima di liberare una “figura” dovevo preservare la materia sonora, con cui io e poi l'ascoltatore saremmo entrati in contatto, dai “miei” gesti, dalle “mie” abitudini sugli strumenti, dalla “mia” espressività e in parte forse anche dalla mia “storia”».
«Così è stato generato Spiralis Aurea. Qui le forme delle composizioni sono prima “viste” che “udite” e si autogenerano in virtù di un principio-motore immobile. Sono traduzioni di forme geometriche e simboliche in una partitura e successivamente, nel tempo della loro esecuzione e manifestazione sonora, come esperienza musicale».
Proviamo a entrare con te in questo processo…
S. P.: «È un lavoro di architettura dei suoni intesi come relazioni tra altezze in un contesto tonale. Un tentativo di generare una forma musicale che in qualche modo sia traduzione di una figura geometrico-simbolica e che quindi possa preservare e restituire all'ascolto dei tratti e delle caratteristiche di forme e relazioni archetipiche. Spero che da questo se ne tragga una qualche possibilità di beneficio».
«Le composizioni e le partiture sono tutte per quattro linee o voci, ma non prevedono una strumentazione specifica. La scelta della strumentazione per queste versioni presenti nelle registrazioni del disco è avvenuta talvolta in modo intuitivo o in seguito alla collaborazione stretta con alcuni dei musicisti che hanno partecipato, talvolta per il valore semiotico ed arcano di certi strumenti, talvolta per evidenti necessità di registro».
«In alcuni casi, come in “Crux” ad esempio, sono previste delle necessità realizzative che solo i glissati di uno strumento ad arco – o degli oscillatori in alternativa – avrebbero potuto realizzare in quel modo».
Nel testo racconti bene la centralità dell'aspetto matematico, geometrico, di serie numeriche nel processo generativo: un qualcosa di apparentemente logico e razionale, ma che svela, come dicevi, aspetti anche archetipici del suono. Come ti sei avvicinato a questo tipo di strutture e cosa significano per te?
S. P.: «Credo che l'esperienza artistica sia sempre, sia per chi la crea sia per chi la fruisce, un tentativo di partecipazione all’archetipo, uno sguardo verso il Sacro che mai può essere verbalizzato e concettualizzato, ma il cui senso può essere solo esperienziato attraverso simboli e segni. Tale partecipazione avviene attraverso forme della mitologia narrativa, ma anche attraverso i numeri, la geometria e forme geometriche e numerologiche che sottendono a molti aspetti della natura compresi i nostri atti percettivi».
«Credo che l'esperienza artistica sia sempre, sia per chi la crea sia per chi la fruisce, un tentativo di partecipazione all’archetipo, uno sguardo verso il Sacro che mai può essere verbalizzato e concettualizzato».
«"I numeri naturali come manifestazioni archetipiche, “esprimono Quantità ma anche Qualità” dice Marie-Louise Von Franz. Preservano allo stesso tempo una speciale caratteristica di semplicità e complessità ed in questo senso incarnano una delle manifestazioni più misteriose del Sacro nella sua più fine accezione etimologica - come qualcosa che si definisce appunto inaccessibile. Le conseguenze del teorema di incompletezza di Godel sui sistemi assiomatici sono a tal riguardo estremamente significative. Esiste un grado di verità riguardo ai numeri naturali che non può essere logicamente dimostrato, o in altre parole, non esiste un tipo di algebra che possa descriverne interamente la complessità del loro insieme. Sono, se guardati da una certa prospettiva, i “custodi” di un principio di verità superiore al principio di dimostrabilità».
Si tratta di temi e riflessioni complesse, che non mi stupiscono, ma che forse colpiranno molte ascoltatrici e ascoltatori per cui Stefano Pilia è un nome associato alla chitarra e a un certo contesto rock (Massimo Volume, Afterhours), anche se da sempre hai frequentato gli ambiti più sperimentali. Quali sono secondo te le esperienze che hanno costruito il Pilia compositore di Spiralis Aurea?
S. P.: «Studiare, lavorare, osservare la Natura, visitare certi luoghi, aderire all' arte, partecipare e condividere con gli altri, insomma vivere e non solo sopravvivere. Non solo un insieme di esperienze musicali: credo che tutto quello che mi è stato offerto contribuisca a realizzare sempre quello che faccio, perché da tutto inevitabilmente si impara e si assorbe».
«Gli studi di fisica e di musica mi hanno certamente fornito degli strumenti di analisi e comprensione per poter elaborare ed affinare una via compositiva. il lavoro con i 3/4HadBeenEliminated è stato un laboratorio essenziale. Ma in termini più larghi, in termini di intenzioni, volontà, ispirazione, sacrificio, esperienza, penso ad esempio a quanto siano stati importanti i tour e il lavoro con Mike Watt. E così anche le esperienze di un certo contesto rock, apparentemente distanti, non sono isolate o opposte al percorso. Almeno a mio sentire tutto è legato e connesso».
Cosa hai ascoltato in quest'ultimo anno e mezzo di lockdown? Sembra una di quelle domande-riempitivo un po’ dovute, ma in realtà a me sembra interessante anche capire come i suoni hanno plasmato questo nostro periodo...
S. P.: «Sempre tanto soul e blues. molta musica sacra, tanto Bach ed Arvo Pärt, che proprio durante questi periodi di quarantena ho anche studiato in modo approfondito. In particolare il tintinnabulum di Pärt è stato un elemento importante da cui ho derivato, attraverso la serie di Fibonacci, una mia versione per la conduzione di alcune voci».
Le composizioni del disco troveranno una loro vita anche in qualche modalità performativa dal vivo?
S. P.: «Sì, stiamo proprio lavorando in questi giorni con i violoncellisti Mattia Cipolli e Giuseppe Franchellucci, per rivedere possibili arrangiamenti. Laddove sarà possibile anche con Alessandra Novaga e Adrian Utley.
Come ti dicevo queste composizioni non prevedono un organico specifico per cui si possono derivare diversi arrangiamenti senza compromettere il disegno. In alcuni casi possono anche essere ridotti a un duo e di alcune infatti ne sto trascrivendo delle versioni proprio per due chitarre elettriche. E ritornare così finalmente anche al mio strumento».
Coinvolgo qui Bruno Stucchi/Dinamomilano, perché una parte integrante del progetto è l’artwork; come hai lavorato a questo aspetto del disco e cosa ti ha colpito di queste composizioni di Stefano?
Bruno Stucchi: «Non conoscevo il cimitero della Futa (alla cui planimetria è ispirato il disegno) finché non me ne ha parlato Stefano. Ne sono rimasto folgorato, come dalle sue composizioni, nelle cui spirali mi sono perso per mesi, anche perché ho avuto il privilegio di confrontarmi con lui dall’inizio del progetto. Questa musica mi ha travolto come poche altre volte, e ho pensato che dovevo trovare un modo di rappresentarla visivamente che fosse analogo allo spirito ed all’ispirazione che ha guidato Stefano».
«La Spiralis-reticolo della copertina è liberamente ispirata alla pianta del cimitero, ma si rifà anche alla simbologia dell’hortus conclusus e del labirinto, intesi come scaturigini della meditazione e dell’ascesi. Le pennellate a tempera nera su carta Canson sono figlie di Kiefer e di Kounellis; le croci di Tapies e di Beyus. Ma la cifra principale è un rimando a Burri e all’arte povera, che si ritrova sia nella carta rugginosa, “francescana”, sia nella tecnica di stampa usata, la tipografia al torchio, effettuata a mano, foglio per foglio, su una pressa Koenig & Bauer Würzburg del 1915, ancora attiva nella storica tipografia di Don Bosco – Valdocco a Torino. Questo anche grazie alla collaborazione con Archivio Tipografico, realtà torinese dedicata alla preservazione e promozione dell’antica arte della stampa.
«Infine la parte Aurea, l’illuminazione, doveva venire da un piccolo quadratino di oro zecchino, al centro della composizione. Anche in questo caso era necessario che fosse applicata a mano, su ogni foglio, in modo quasi devozionale, con l’antica tecnica della foglia d’oro usata nelle insegne, nei vetri e negli specchi – e grazie all’aiuto di due artigiani torinesi che l’hanno riportata in auge. La sostanza che viene applicata a pennello per far aderire la lamina d’oro zecchino si chiama “missione”. Un cerchio, anzi una spirale, che si chiude».