L’eterna giovinezza di Gregory Kunde

A Ferrara, ennesimo trionfo per l’inossidabile tenore americano, in un Ernani che consacra il giovane Ernesto Petti come nuovo baritono verdiano

Ernani (Foto Gianpaolo Parodi)
Ernani (Foto Gianpaolo Parodi)
Recensione
classica
Teatro Comunale di Ferrara
Ernani
04 Febbraio 2022 - 06 Febbraio 2022

Negli anni ’80, irriducibili melomani itineranti pellegrinavano di teatro in teatro per inseguire le ultime apparizioni di un Alfredo Kraus sessantenne, ritenuto a ragione un miracolo di longevità ed eleganza. Oggi, melomani non meno irriducibili rincorrono un altro tenore altrettanto straordinario: quel Gregory Kunde che, prossimo ormai ai settanta, alle suddette caratteristiche del collega può aggiungere una straordinaria vastità di repertorio. Non v’è infatti chi abbia mai affrontato con totale pertinenza tutti gli stili canori quanto Gregory Kunde, dal Belcanto al Verismo, dal tenore contraltino acutissimo e d’agilità al tenore drammatico baritonale e possente, scorrazzando con assoluta sicurezza su tre ottave piene di estensione (quando un normale tenore fatica a padroneggiarne due).

Ricercatissimo negli anni ’90 come tenore rossiniano (memorabili le sue presenze pesaresi), evolutosi nel giro di secolo verso vocalità più liriche e fin stentoree, ma senza mai perdere la duttilità che gli permette ancora di affrontare il vecchio repertorio, nell’ultimo decennio è divenuto tenore verdiano di riferimento – una categoria già di per sé rarissima – spingendosi con successo fino al temutissimo Otello, dopo essere stato per anni interprete di riferimento per l’altro Otello, quello rossiniano, diametralmente opposto sul piano vocale.

Date queste premesse, si può ben capire quale attrazione possa suscitare fra gli spettatori più attenti quell’Ernani con Gregory Kunde che sta girando fra i teatri minori dell’Emilia, quasi in sordina, a singole coppie di recite per città. Accade così che, nella platea semivuota di un Teatro Comunale di Ferrara disertato dai locali, incontriamo chi si accinge a vedere la terza e quarta rappresentazione dello spettacolo, dopo le prime due già godute a Piacenza e in attesa della quinta e sesta in programma a Reggio nel prossimo fine settimana; e nei palchi riconosciamo volti noti di raffinati appassionati scesi appositamente dalla Francia, dalla Germania e fin dalla Svezia, perché un Ernani con Kunde ancora agile, squillante, sicuro negli acuti estremi e capace di cantare il giovane Verdi con lo stile belcantistica che gli sarebbe pertinente (ma che di rado si ode in teatro) è cosa da non perdersi per nessun motivo! E quando, a conclusione del secondo atto, il tenore conclude trionfalmente la grande aria «Odi il voto» (scritta appositamente da Verdi per Nicola Ivanoff su raccomandazione di Rossini, ma assente dalla partitura corrente), il tripudio delle ovazioni raggiunge le stelle e si grida al miracolo vocale.

Attorno a Kunde, per fortuna, non c’era il vuoto. Francesca Dotto è una Elvira vocalmente molto interessante, oltre che scenicamente splendida: passato quell’ostacolo per tutti i soprani che è la micidiale cavatina d’ingresso (lodevolmente eseguita con la doppia cabaletta), il resto della parte le sta alla perfezione, nelle frasi più drammatiche come in quelle estatiche, dagli acuti sicurissimi alle frequenti discese sotto il rigo. Il basso Giovanni Battista Parodi ha sostituito all’ultimo Evgeny Stavinsky indisposto, mettendo a frutto la sua lunga esperienza di palcoscenico. Splendida sorpresa è stata invece sentire per la prima volta in Verdi la voce dell’ancor giovane baritono Ernesto Petti: brunita, potente, perfetta nella dizione e sicura negli acuti sfogati, ma pure capace di piegarsi all’emissione a fior di labbro, tanto che la sua esecuzione sussurrata della cabaletta lenta «Vieni meco» è apparsa il momento più emozionante dell’intera serata.

Sul podio Alvise Casellati, presenza sempre più frequente nei nostri teatri: a dispetto di una gestualità rinunciataria, con la mano sinistra che si muove continuamente a specchio della destra in un’oscillazione quasi metronomica delle due braccia, il risultato efficace sull’Orchestra Toscanini non è venuto meno, in una direzione che in definitiva potremmo dire nitidamente “lineare”, mancandovi lo zolfo che altre concertazioni hanno saputo far sprigionare da questo melodrammone melodrammatico tutto fuoco e passione (qui propostoci fra l’altro con tagli alla partitura non sempre comprensibili). Nulla il direttore ha comunque potuto per far cantare a tempo il coro del Teatro Municipale di Piacenza, dislocato com’era ai lati del palcoscenico, dietro telari traslucidi che lo rendevano quasi invisibile al pubblico. Così facendo, il regista Gianmaria Aliverta eliminava all’origine il problema cronico di far agire in scena un coro operistico, affidando in sua vece alcune pantomime a un manipolo di giovani mimi: risultato invero originale ed efficace ad apertura di sipario, là dove veniva lodevolmente recuperato quel mix fra tragico e grottesco tanto amato da Victor Hugo, autore dell’Hernani, ou L’honneur castillan che affascinò Verdi; per quanto felice, è rimasto però un momento isolato.

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

La sua Missa “Vestiva i colli” in prima esecuzione moderna al Roma Festival Barocco

classica

Al Teatro Massimo Bellini, con Mahler e Berio 

classica

A Ravenna l’originale binomio Monteverdi-Purcell di Dantone e Pizzi incontra l’eclettico Seicento di Orliński e Il Pomo d’Oro