Brividi a Sanremo 2022

Si è chiuso il Festival: un'analisi della vittoria di Blanco e Mahmood, e la sensazione che rappresenti una svolta per Sanremo

Mahmood Blanco Brividi Pagelle Sanremo 2022 Jacopo Tomatis
Blanco e Mahmood (foto di Bogdan Chilldays Plakov)
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Per un istante, ormai prossimi alle due di notte dell'ultima lunghissima serata di un lunghissimo Festival di Sanremo 2022, i brividi mi sono venuti sul serio. Davvero – nell'edizionep di Mahmood e Blanco – c’era il rischio di trovarsi con Gianni Morandi a rappresentare l’Italia a Eurovision? Nell’anno in cui l’evento televisivo non sportivo più seguito in Europa torna finalmente nel nostro Paese, dopo un trentennio di quasi totale disinteresse della nazione?

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Non è tanto questione di sciovinismo, ma di comprendere le dinamiche del pop internazionale in un momento in cui lo streaming sta ribaltando i tradizionali equilibri e in cui, per la prima volta, prodotti italiani stanno approdando ai piani alti delle classifiche internazionali (vedi il caso Maneskin, ma non solo: già lo stesso Mahmood con “Soldi” aveva cominciato a delineare una storia diversa per gli artisti italiani). Intendiamoci, Morandi è simpatico ed è (o è stato) un grande performer. Ma il pezzo scritto per lui da Jovanotti è a dir poco cringe. E se per il pubblico italiano la simpatia del personaggio-Morandi e la conoscenza della sua storia ne hanno mascherato le magagne, di fronte a un pubblico internazionale il rischio era veramente quello di far fare al Gianni nazionale la figura del vecchio zio un po’ rincoglionito.

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Oppure poteva vincere Elisa, con un bel pezzo non troppo distante dal potentissimo “Luce” che le aveva dato la vittoria (anno 2001: le torri gemelle erano ancora in piedi, Blanco sarebbe nato due anni dopo). Anzi, per nulla distante da “Luce”. Anzi, praticamente “Luce”. Non che sia un male, naturalmente. Ma ogni tanto è bello pensare che l’industria musicale nazionale possa proporre qualcosa in linea con i tempi. Insomma, sono certo di non essere stato l’unico a tirare un sospiro di sollievo all’annuncio finale di Amadeus.

E qui arriviamo a “Brividi” di Mahmood e Blanco, che erano dati favoritissimi alla vigilia e che hanno confermato in gara tutte le aspettative. “Brividi” non è solo una bella canzone. È la canzone giusta al momento giusto. È la canzone che non ci meritiamo ma di cui avevamo bisogno, verrebbe da dire con una battuta. I due potevano puntare su un pezzo groovy – come era “Soldi”, e come in fondo era nelle aspettative della collaborazione. Invece hanno buttato sul piatto una ballad lenta e romantica con un enorme potenziale sanremese, del quale – hanno raccontato nelle interviste – si sono resi conto quasi subito. A Sanremo, si sa, l’obbligo dell’orchestra penalizza chiunque abbia una proposta più eccentrica rispetto al modello festivaliero (ascoltatevi Rkomi nella versione di studio e in quella sanremese per capire di che parlo). A Sanremo, in fondo, i rivoluzionari non sono mai stati veramente capiti. O se lo sono stati, forse non erano dei veri rivoluzionari…

“Brividi” non è solo una bella canzone. È la canzone giusta al momento giusto. È la canzone che non ci meritiamo ma di cui avevamo bisogno.

“Brividi” tuttavia non è solo un pezzo sanremese. Piuttosto, adatta al modello sanremese tutta una linea urban-soul alla Drake o alla Frank Ocean, o di cantautorato elettronico splenico alla James Blake. Non è però un’importazione coatta: Mahmood e Blanco conoscono i codici della canzone italiana e li hanno evidentemente metabolizzati nelle cose che scrivono. L’operazione “Brividi”, vista in una prospettiva di lungo corso, è allora l’ennesimo momento di dialogo tra l’Italia e le musiche afroamericane alla moda, come sempre è stato nella storia del Festival fin dai tempi di Nilla Pizzi (le cui sinuose beguine erano arrangiante da Cinico Angelini con swing e fiati da big band).

Anche la scelta per la serata cover di “Il cielo in una stanza” (rischiosa, e portata a casa benissimo) racconta delle molte radici e dei molti rami che forse fioriranno: la canzone di un cantautore, certo; un classico della canzone italiana noto internazionalmente grazie a Mina, ovviamente; ma anche un brano americanissimo nell’ispirazione, a partire dal famigerato giro di do, che Gino Paoli mutuava dal doo wop e dagli standard jazz della sua giovinezza (“Blue Moon”…).

“Bridivi” fa – molto bene – tutto questo. Fa incontrare questi mondi senza per questo smentire il personalissimo stile dei suoi due autori e interpreti. Di fatto, “Brividi” è due canzoni in una, con Mahmood e Blanco che curano ciascuno una propria parte – come è nella logica dei featuring che domina in questi anni, in cui ciascuno deve comunque parlare al proprio fandom – ma che sanno cucirle insieme con maestria nell’apertura del ritornello. Lo ha notato molto bene in un post su Facebook Mario Venuti: il fatto che Blanco non riprenda la melodia iniziale di Mahmood ma ne sviluppi una sua, e che le due parti si evolvano quasi indipendentemente l’una dall’altra, crea una grande tensione all’ascolto, un’aspettativa che si risolve – appunto – nel bellissimo ritornello armonizzato a due voci.

In più, c’è la performance. Complice una regia da Orchestra spettacolo su Telegranda – non è una critica tecnica ma una categoria dell'anima: si tratta evidentemente di una scelta del clan Amadeus, che riporta indietro le lancette di qualche decennio – chi aveva show particolarmente elaborati è stato massacrato in questo Sanremo. Mahmood e Blanco, in linea con la canzone, non portavano quasi nulla se non il loro modo di occupare il palco, i loro corpi tonici, belli e ben vestiti (scusa ancora, Gianni).

È un’ovvietà dire che “Brividi” funziona così bene anche perché a cantare la canzone sono due giovani uomini, che la interpretano con una enorme tensione omoerotica.

È un’ovvietà dire che “Brividi” funziona così bene anche perché a cantare la canzone sono due giovani uomini, che la interpretano con una enorme tensione omoerotica. Riguardatevi l’esibizione della prima serata, quando prima dell’ultima apertura (a 3:10 nel video qui sotto), dopo uno sguardo intensissimo e prolungato che i due si scambiano, Blanco scioglie la tensione afferrando quasi con violenza la giacca di Mahmood e lo strattona, allontanandosi. È in questi piccoli gesti emozionati (ed emozionanti) che sta la grandezza di una performance.

Mossa studiata? Coreografata? Spontanea? Poco importa, sempre di performance si tratta. (Fra le cose che vengono in mente come paragone c’è anche il progetto francese The Blaze, di cui aveva parlato qui il nostro Ennio Bruno).

Sanremo è finito dunque nel modo più scontato possibile. Ansie finali a parte, le percentuali di voto per "Brividi" sono da Pentapartito dei tempi d’oro: la vittoria di Mahmood e Blanco non è mai stata veramente in dubbio. La gestione Amadeus ha abbassato il livello dello spettacolo televisivo (vedi alla voce regia) ma ha alzato il livello delle canzoni in gara, facendo proprio il modello di Baglioni. Inutile negarlo, è un Sanremo più divertente del passato, che si sforza di essere davvero ecumenico e propone tante cose diverse e nuove. Un Sanremo che è meno spettatore e sempre più attore del cambiamento musicale che lo streaming sta costruendo in questi anni.

È un Sanremo che è meno spettatore e sempre più attore del cambiamento musicale che lo streaming sta costruendo in questi anni.

In fondo Sanremo è sempre stato una specie di setaccio del mondo musicale italiano: non tutto passa, e quello che passa viene sempre e comunque “sanremizzato”, accede a un livello diverso di popolarità e muta la sua forma. Tolta la crusca, che cosa resterà del Festival di quest’anno? Qualche bella canzone vecchio stile, su tutte il brano di Massimo Ranieri, che ha vinto con buone ragioni il Premio della critica. Molti volevano andasse a Giovanni Truppi, che portava una bellissima canzone con qualche cosa di irrisolto. La critica in effetti ha quasi sempre premiato i cantautori in gara, e Truppi lungo l’intera settimana ha tenuto a tutti i costi a sottolineare che appartiene alla categoria. Forse la strategia di distinzione, alla fine, non ha pagato: i pubblici sono molto più ibridati di una volta, e così i gusti (e grazie a dio). L’era dei Silvestri e degli alieni Avion Travel che vincono con scandalo è ormai lontana.

(Invece, il Premio Bardotti al miglior testo a Fabrizio Moro, assegnato dalla Commissione artistica – ovvero dal clan Amadeus – è roba da mettere su una faida che dura generazioni).

Resterà qualche tormentone stagionale: “Dove si balla” di Dargen D’Amico – pezzo intelligentissimo e tamarro insieme – andrà alla grande, e sarà la “Musica leggerissima” del 2022. Con Colapesce e Dimartino, Dargen condividerà anche il destino di essere conosciuto da qui in poi come quello che faceva i balletti sul palco dell’Ariston, per un pubblico che nulla sa – e forse mai saprà – del suo esilarante passato artistico.

Molte altre cose invece, come è nella logica di Sanremo, spariranno rapidamente. I loro interpreti sono già pronti a rientrare negli armadi delle case discografiche, pronti per scrollarsi di dosso l’antitarme al prossimo giro: Emma, Noemi, Le Vibrazioni…

Ovviamente, resterà soprattutto “Brividi”. Record di streaming a parte (i numeri sono già mostruosi, e in crescita costante) è una splendida canzone. Mahmood ha partecipato due volte al Festival e lo ha vinto due volte. Blanco non ha ancora vent’anni ed è il vincitore maschile più giovane di sempre, oltre che l'artista italiano di maggiore successo al momento. Vedremo come andrà ad Eurovision (un mio pronostico: andrà molto bene), ma è probabile che tra vent’anni chi scriverà la storia di Sanremo riconoscerà una svolta importante, all’inizio degli anni venti del millennio.

Ci vediamo allora, con chi ci sarà, nel 2042. Forse ci sarà ancora Amadeus.

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