I binari forti della Transiberiana hanno rimesso in pista l'antica locomotiva, nel 2019, che proprio non voleva rassegnarsi a finire i propri giorni come macchina del suono di tanto tempo fa, esposta in un hangar da museo. La locomotiva si chiama Banco del Mutuo Soccorso: oggi un sestetto con i ranghi rimpolpati, dopo l'annus horribilis, tra il 2014 e il 2015, in cui se ne andarono Francesco Di Giacomo in un terribile schianto e Rodolfo Maltese, al termine di una malattia che lo aveva provato e fiaccato, ma non domato.
Avrebbe potuto essere la fine di tutto, e già sarebbero rimasti negli annali del rock italiano tanti capitoli di storia da riascoltare con attenzione e amore. Invece Il Banco non smette di suonare, di comporre, di accettare nuove sfide. Ha un'anima di fuoco e di roccia, che si chiama Vittorio Nocenzi. Lui, caparbio e inventivo, paziente e impetuoso quando è il caso di esserlo per dare una mano al destino, un giorno ha capito che erano una bella profezia la parole scritte un giorno da Francesco di Giacomo, che il Banco è «un'idea che non puoi fermare».
Tutto questo Vittorio Nocenzi l'ha raccontato al critico musicale Francesco Villari, molto vicino alla band. Talmente vicino che sue sono alcune delle idee di arrangiamento per i brani dello splendido doppio cd di tributo a Di Giacomo – intitolato, appunto, Un'idea che non puoi fermare – e, si viene a scoprire, anche il fischiettio che ascoltate all'inizio de "Il giardino del mago". Un'idea di Nocenzi, al solito semplice e inventiva.
Esce in libreria ora Nati Liberi. La storia del Banco del Mutuo Soccorso raccontata da Vittorio Nocenzi per Tsunami Edizioni, ed è un bel racconto. Che evita l'agiografia spicciola sempre in agguato, il tecnicismo musicologico più esasperato, l'appiattimento dei giudizi su quelli già consolidati dagli anni e dalla pigrizia di chi vede sempre il meglio alle spalle di quanto può osservare nell'oggi.
Ne discutiamo con Vittorio Nocenzi stesso, a partire da questa idea, sopravvivere a tutto. Anche ai lutti che, quasi sempre, sembrano mettere un'automatica parola fine alle storie.
«Essere sopravvissuto a tutto, come tu dici, mi fa un effetto di ulteriore responsabilizzazione. Sono abituato alle responsabilità, sono sempre stato consapevole che a ogni scelta segue una conseguenza, non è solo un fatto logico, è molto di più, lo definirei un fatto escatologico che siamo sempre portati a dimenticare. Un lavoro artistico deve avere una forte tensione etica. Se facciamo certe affermazioni, ne scaturiscono certe conseguenze e quando queste si manifestano non dovrebbero sorprenderci. Perché la logica l’ha celebrata e sostenuta Aristotele già migliaia di anni fa».
«Un lavoro artistico deve avere una forte tensione etica».
In Transiberiana s'è affacciato sulla scena del "Banco del 2000" il tuo terzo figlio, Michelangelo, pianista e compositore...
«Uscivo dallo studio di registrazione dopo dieci ore di lavoro stanco ma entusiasta, con lo stesso entusiasmo di quando ero ragazzo, perché fra le tante magie della musica c’è anche quella di creare dentro e intorno a te una speciale bolla d’aria dove il tempo non é scandito allo stesso modo, il metronomo accelera, rallenta, torna indietro o sceglie di andare avanti, con totale arbitrio. A deciderlo sono solo le tue emozioni, cioè quanto di più illogico ci sia al mondo».
«È qualcosa che mi spaventa anche, perché oltre che artista sono anche padre, e se un figlio sceglie di fare l’artista, in Italia, è una scelta dura. Siamo una nazione che ha grandi ritardi nei confronti della cultura e dell’arte. La maggior parte degli italiani credo ancora oggi pensino che quelli artistici non siano veri “lavori”. Però poi una persona deve seguire la strada per la quale è nata! Solo così renderà il massimo del proprio valore».
«E allora auguri a tutti i Michelangelo Nocenzi del mondo, che possano essere se stessi e siano accolti con generosità dalle proprie nazioni, perché gli artisti sono gli sciamani di una comunità, che con le loro visioni dell’"oltre" hanno sempre regalato prospettive nuove e stimolanti. L’arte è come l’Utopia: entrambe servono a camminare verso il futuro con più forza convinzione e coraggio».
Nel libro parli di un “progressive rock” finito sotto un'etichetta “banale e distonica”, in pratica il “regressive” di oggi, spesso puro citazionismo. Chi secondo te oggi suona invece ancora il progressive come “possibilità di sperimentare a tutto tondo”, per usare le tue parole, magari non riconoscendosi neppure nel “prog”?
«Mi scuserai ma preferisco non fare nomi specifici per due motivi: il primo per non contribuire a compilare quelle classifiche di merito che non ho mai amato; il secondo per non mortificare con una loro esclusione band che magari non conosco e per questo non citerei. Quanto alla banalità delle etichette, è una mia convinzione da tanto tempo. Lo strumento che la comunicazione utilizzava per necessità, parlare e scrivere di musica senza utilizzare l’ascolto, ha generato inevitabilmente il bisogno di utilizzare varie etichette identificatrici per indicare i diversi tipi di musica; e ci siamo così inventati le etichette con le quali “indicare” i generi musicali di cui parliamo o scriviamo (“hard rock”, “progressive rock”, “fusion”, “funky”, “grunge”, “metal” eccetera)».
«Questo bisogno di aiutare la comunicazione scritta usando “etichette musicali” con le quali indicare i vari generi ha poi fatto nascere una proliferazione di ulteriori “etichette” che francamente sono arrivate, paradossalmente, a sostituirsi alla musica stessa di cui si parlava».
«La banalità di parlare del progressive come musica caratterizzata da “barocchismi strumentali” è una cosa che mi indispone ancora oggi».
«La banalità di parlare del progressive come musica caratterizzata da “barocchismi strumentali” è una cosa che mi indispone ancora oggi: in primis il termine “barocco” in questo caso è utilizzato proprio fuori luogo, perché “barocco” significa tutt’altro che “sovrastruttura eccessiva”. Mi sarei aspettato di più, ad esempio dire “rock con riferimenti sinfonici” (perché di questo si trattava) dal momento che i riferimenti sinfonici alle opere dell’Ottocento hanno ispirato le cosiddette “minisuite”, quelle composizioni cioè molto più lunghe dei canonici tre minuti del rock and roll, caratterizzate dal ritorno dei temi musicali principali con altre orchestrazioni rispetto a quelle con cui sono stati eseguiti la prima volta nel corso dell’esecuzione della suite stessa».
«Per la mia generazione la diversità era un valore aggiunto e imprescindibile, perché ci faceva vedere qualcosa, a cui eravamo assuefatti, da più punti di vista, facendoci riscoprire quella cosa stessa facendola diventare altro».
«Ma, come vedi, è un mondo completamente opposto, direi agli antipodi di quello che succede oggi con la musica trap, dove si utilizza il tuner anche sul miagolio di un gatto, e dove non è rincorsa la “diversità” perché essa stessa non è più un valore, anzi, in questa globalizzazione banale e piatta, la diversità è negatività. Per la mia generazione la diversità invece era un valore aggiunto e imprescindibile, perché ci faceva vedere qualcosa, a cui eravamo assuefatti, da più punti di vista, facendoci riscoprire quella cosa stessa facendola diventare altro. La diversità, insomma, come possibilità di crescita della nostra conoscenza anziché un “pericolo”, qualcosa fuori dalla nostra portata».
Nel testo si parla di una ipotizzata opera rock su San Francesco del Banco, di cui l'estremo residuo sarebbe "La città sottile" scritta da tuo fratello Gianni. È possibile che un giorno salti fuori? esistono partiture, prove, testi?
«Non credo, perché dovrei organizzare le registrazioni ex-novo, in quanto dell’opera restano solo gli appunti delle composizioni e dei testi, e quindi sarebbe un lavoro lungo e impegnativo e francamente mi affascina di più lavorare su musica inedita e nuova. Per ogni artista che abbia avuto una carriera particolarmente lunga credo che si crei una specie di dualismo fra l’impegnarsi a raccontare se stessi attraverso il proprio passato e provare ad affrontare il presente, pensando al futuro e non al passato. Insomma non amo pensarmi impegnato a lavorare tutto il giorno nel resuscitare il passato; preferisco raccontare il presente, il lavoro del notaio che certifica i propri trascorsi non mi affascina, anzi ci sento una specie di negatività, quasi un epitaffio…».
Cosa che non succede con il libro dedicato la Banco?
«Il libro appena uscito l’ho sentito invece come un dovere perché lo dovevamo a chi ci segue. Troppo a lungo è mancato, lasciando spazi arbitrari spesso a chi lo ha sostituito con leggende metropolitane, inesattezze senza nessun fondamento. Però non le condanno, queste ultime, ma le apprezzo in fondo, come dimostrazione di un grande affetto che, essendo noi assenti su questo versante, hanno raccontato, hanno “inventato” nostre intenzioni o aneddoti mai accaduti. Era necessario scrivere questo libro ed era necessario che lo redigesse qualcuno all’altezza del compito, con serietà, competenza ed informazioni corrette, come è successo con Francesco Villari, che ha messo insieme le sue conoscenze riguardo il nostro repertorio, ricche e approfondite per i suoi studi di musicologo, e le cose che gli ho raccontato io stesso».
«È ovvio che potrà esserci ancora qualche inesattezza: 50 anni sono proprio lunghi, rappresentano tanto tempo, per cui anch’io magari non mi ricordo esattamente i dettagli, gli aneddoti che si sono alternati durante l’esecuzione di più di 5.000 concerti in tutto il mondo, ma di sicuro in questo libro è stata messa al centro della nostra storia, come mai prima, la nostra musica e i nostri testi, la parte cioè centrale del nostro lavoro. Sembra una cosa da poco, o meglio “scontata”, e invece no, perché la critica musicale dei dischi rock, a differenza di quella della musica classica o del jazz, ha quasi sempre parlato della musica rock più come un documento del fenomeno giovanile generazionale, più come costume sociale che produzione culturale, “artistica”, di cui analizzare il respiro compositivo, armonico, i modelli ispiratori provenienti da altre forme d’arte, eccetera».
«L’analisi più ricorrente per i dischi del rock italiano girava sempre e anzitutto sulla prima domanda che si facevano tutti i “critici”: “questi a chi somigliano”? E se scrivevi un lungo fraseggio all’organo Hammond o utilizzavi un moog col glide era immancabile la diagnosi: somigliano a Emerson Lake and Palmer. Bastava utilizzare un timbro, un suono per essere etichettato subito. Erano pochi i cosiddetti “critici” che andavano ad analizzare l’andamento del fraseggio, la scelta di certe cadenze armoniche anziché altre, insomma un'analisi vera della musica della band. Il tipo di struttura compositiva dei brani, l’alternarsi dei momenti strumentali a quelli vocali, la scelta di quali tempi dispari e come si erano realizzate poliritmie particolari non interessava poi molto. Bastava scrivere che le chitarre “erano madide di sudore” e l’analisi del critico musicale era compiuta! Non voglio fare affermazioni generalizzanti perché sono sempre superficiali, però è sicuro che non erano molti i cosiddetti critici musicali dell’epoca che conoscessero la musica, la maggior parte di loro erano ragazzi appassionati di rock, ascoltatori delle produzioni discografiche inglesi e statunitensi, che conoscendo una quarantina di nomi di band straniere si sentivano investiti di sufficiente conoscenza specifica per scrivere articoli e recensioni musicali».
Un problema di cultura musicale di base, di alfabetizzazione?
«La cultura musicale, allora come oggi, non è ritenuta una cosa importante. Più che un prodotto culturale di rilievo, o una disciplina centrale nell’educazione giovanile, viene semplicemente considerata un “intrattenimento” più o meno piacevole. Che poi sia stata anche uno strumento dell’espressione generazionale di un’intera epoca, questo la rende solo più complicata da decifrare con esattezza. In quell’epoca nella musica alternativa c’erano gli echi della letteratura internazionale, del cinema e del teatro alternativo, molte erano le band che rincorrevano con i loro live act l’eterna utopia dell’"arte totale", cioè di una musica che diventa gesto, immagine, coreografia, costume di scena».
Un breve giro sulla Rete mostra che esistono decine di concerti splendidamente registrati del Banco negli anni, spesso molto interessanti. Hai mai pensato che forse sarebbe il caso di dar corpo a una serie di archive recordings ufficiali come hanno fatto i Grateful Dead, o Emerson Lake & Palmer, o i Tangerine Dream?
«Mi costringi a ripetermi: personalmente non amo molto l’essere coinvolto in prima persona in questo tipo di lavori. Preferisco sempre occuparmi di lavori nuovi. Però ti do ragione sull’opportunità di farlo: magari troverò qualcuno a cui affidare questo incarico, che lo faccia non “industrialmente” ma con originalità oltre che con competenza».
Il Banco chiuderà un cerchio: L'Orlando furioso che riviveva nelle parole di Francesco Di Giacomo già sul primo vero disco del Banco, il "Salvadanaio", diventerà il nuovo lavoro dopo Transiberiana, in uscita nel 2022. In un certo senso chiude un cerchio, e ne crea un altro nuovo. A mente fredda, cosa ne pensi del lavoro registrato? E a mente calda, quanta componente “emotiva” c'è in quel disco? Sarebbe piaciuto secondo te a Rodolfo Maltese e Francesco De Giacomo?
«Quando Michelangelo ci propose l’idea di tornare all’Ariosto dell’Orlando come prossimo nuovo lavoro, l’idea piacque subito moltissimo a me e a Francesco Di Giacomo: tornare a "In volo", il primo brano di apertura del nostro primo album. Il Rinascimento italiano è stato l’ultimo momento in cui la nostra Italia è stata il centro del mondo. Ancora oggi ammirato ed adorato in molte parti del pianeta. E L’Orlando furioso è il libro capolavoro del Rinascimento italiano. Non è un caso che i discografici tedeschi che lo pubblicheranno ne siano particolarmente fieri. A mente fredda, penso che stia uscendo un lavoro molto bello, viscerale, emotivo e allo stesso tempo raffinato, dove l’eleganza non perde mai di vista la passione, la componente basica secondo me della vera bellezza».
«Un grande tramonto non è bellezza platonica, ma deve commuoverti, prenderti allo stomaco, farti dichiarare la scoperta della bellezza. C'è dentro il Banco, come in Transiberiana, e lo si riconosce subito dalle prime note, ma, contemporaneamente pur riconoscendolo subito, ci trovi un profondo rinnovamento contemporaneo, quello che la storia ci richiedeva, perché l’Orlando è di una contemporaneità disarmante, le sue storie fanno parte dello ieri dell’oggi in modo incredibile: hanno sempre al centro la natura umana ed i suoi sentimenti più importanti, che riconosciamo invariati ieri come nell'oggi. Dell’idea di Michelangelo, l’Orlando, a Rodolfo non ho fatto in tempo a parlarne purtroppo, ma conoscendolo sono sicuro che gli sarebbe piaciuto molto».
Tuo fratello Gianni ha ascoltato le tracce nuove?
«Ancora no, sono in preproduzione, ma sarà uno dei primi a sentirle».
Ti rendi conto che c'è già aspettativa per questo disco?
«Io non ho mai dato per scontato il fatto di sapere che la mia musica sia attesa, lo reputo un privilegio. E, di questi tempi, non è affatto poco».