Summer of Soul, l'anti-Woodstock

Il documentario di Questlove Summer of Soul, in uscita, racconta l'incredibile Harlem Cultural Festival del 1969

Summer of Soul
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L’estate del 1969 viene solitamente ricordata per il Festival di Woodstock e il primo uomo sulla Luna, ma in quelle settimane si teneva a Harlem uno dei Festival più incredibili di musica nera che si sia mai immaginato, l’Harlem Cultural Festival, sei concerti gratuiti nel Mount Morris Park (che verrà poi rinominato Marcus Garvey Park) che videro complessivamente la presenza di 300mila persone.

Ideato dal cantante Tony Lawrence e supportato da sponsor come il caffè Maxwell House e la divisione Parks, Recreation, and Cultural Affairs della città di New York (il cui sindaco, John Lindsay, un repubblicano che poi passerà al Partito Democratico, era particolarmente attento alle esigenze degli afroamericani, anche per ragioni elettorali), il Festival vede tra gli artisti in cartellone Sly and the Family Stone (che farà doppietta con Woodstock), Gladys Knight & the Pips, Stevie Wonder, Mahalia Jackson, Nina Simone, B.B. King, The 5th Dimension, vari complessi gospel, jazzisti come Abbey Lincoln & Max Roach o Sonny Sharrock, attori e personaggi di spettacolo come Moms Mabley o il ventriloquo Willie Tyler.

Com’è che di questa meraviglia non si è mai parlato molto?
Incredibile a dirsi, pur essendo stato tutto ripreso in modo superprofessionale dal produttore Hal Tulchin. I ripetuti tentativi di farne un film non sono mai andati a buon fine fino a che, un paio di anni fa, il batterista dei Roots e regista Ahmir Questlove Thompson è riuscito a rompere questo “muro” e a dirigere Summer Of Soul, strepitoso documentario che ha debuttato in questi giorni sulla piattaforma americana Hulu e che è dato in arrivo su Disney+ a fine luglio.

Alternando in modo snello, ma mai banale, il footage originale a interviste a spettatori e spettatrici di allora, nonché a alcuni degli artisti coinvolti, il film immerge immediatamente in una rutilante festa di musica e di comunità.

Nel pieno delle lotte civili, ancora ferita dagli anni del Vietnam, degli assassini dei Kennedy, di Malcolm X e di Martin Luther King (la cui morte, avvenuta appena l’anno prima, viene ricordata sul palco da un allora giovane e emozionante Jesse Jackson), tutte Harlem si riversa nel parco, uomini, donne, bambini, in un clima festoso di fortissima valenza identitaria.

Summer of Soul



In una dimensione rituale in cui l’aspetto spirituale e quello più terreno si fondono in modo potentissimo, vediamo alternarsi sul palco un pirotecnico Stevie Wonder (che si produce anche in un lungo momento alla batteria) e un esplosivo momento degli Staple Singers, con la giovane Mavis che viene chiamata a supportare Mahalia Jackson in “Precious Lord, Take My Hand”.

Ma anche David Ruffin, allampanato e super-hip, che pur avendo lasciato da poco i Temptations, non può esimersi dal cantare “My Girl”, Gladys Knight & The Pips, i ritmi latini di Mongo Santamaria e Ray Barretto, un indemoniato Sonny Sharrock a riproporre sonicamente il dolore del popolo nero e una bellissima Abbey Lincoln che raggiunge sul palco Max Roach.

E ancora Hugh Masekela, gli Edwin Hawkin Singers freschi del successo “profano” di “Oh Happy Day” e una indescrivibile Nina Simone che coinvolge il pubblico con un magnetismo quasi soprannaturale. 

Oltre all’aspetto musicale, che già varrebbe da sè il proverbiale “prezzo del biglietto”, sono centrali le storie che si dipanano dal corpo del documentario: la storia dei 5th Dimension e della loro iniziale scarsa “blackness” percepita a causa dei successi pop; la scarsa rilevanza data all’allunaggio dalla comunità di Harlem – con più di una persona a rimarcare che con i soldi dell’impresa spaziale si sarebbe dato da mangiare a migliaia di fratelli e sorelle più povere – e la presenza delle Black Panther a garantire la sicurezza.

Due ore scarse da sogno, da guardare e riguardare, da metabolizzare (certo la lettura “politica” di oblio di questa manifestazione a scapito della coeva e decisamente più “bianca” Woodstock non può diventare una comoda formula, ma la riflessione è apertissima e legittima) e da incastonare nella storia dell’america black non solo e non tanto come un documento storico, ma come una testimonianza ancora viva di quanto la musica afroamericana sia un dispositivo pluridimensionale di sollievo, protesta, spiritualità, carnalità, fratellanza, unicità.

Rivoluzione che non può essere teletrasmessa, come cantava Gil Scott-Heron, ma che riaffiora potentissima in tempi di Black Lives Matter

Imperdibile.

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