Il mare di Peter Grimes
Madrid: Britten con la regia di Deborah Warner
Con la presentazione di un nuovo allestimento di Peter Grimes di Benjamin Britten al Real di Madrid, il teatro spagnolo sembra marcare in maniera evidente una sorta di linea di predilezione nei confronti della produzione del compositore britannico: dopo Turn of screw della gestione Mortier, sul palcoscenico madrileno in questi anni si sono succeduti titoli come Death in Venice, Billy Budd, Gloriana, sicuramente con lo zampino del direttore stabile, l’inglese Ivor Bolton che di Britten è un appassionato interprete (da non dimenticare, tra l’altro, la presenza di questo titolo, nel 1997, nella stagione inaugurale del teatro appena ristrutturato, dopo 70 anni di chiusura). Una linea che si conferma anche con la riproposizione del riuscito ticket registico del Billy Budd di quattro anni fa: Deborah Warner, con le scenografie di Michael Levine e le coreografie di Kim Brandstrup.
Il progetto registico della Warner, in maniera analoga a quello del Billy Budd, si sviluppa e procede con un’intensa e animata gestione dei movimenti dei personaggi e delle masse, il cui ondeggiare spesso pare in qualche modo mimare la presenza costante del mare. Una presenza, quella del mare, che tuttavia scenograficamente non viene mai in alcun modo visualizzata: orpelli di materiali poveri di un porto, cordami, reti, detriti di plastica, relitti di barche, ci indicano la sua vicinanza; al mare tuttavia sempre si allude con riflessi cangianti, più o meno luminosi, su uno schermo di fondo.
Sul lato opposto, nel golfo mistico, di tale evocazione si fa interprete l’orchestra, con gli interludi marini ed un discorso sinfonico che Ivor Bolton conduce con grande scrupolo: una cura cameristica dei dettagli, del dialogo con le voci ed una conduzione intensa dei momenti orchestrali di ampio respiro, di cui è ricca la partitura di quest’opera. Una direzione musicale che ha saputo far emergere, con un sapiente lavoro di orchestrazione le varie ‘anime’ dell’eclettismo compositivo di Britten: quella tardo impressionista, quella che guarda con disinvoltura al musical, così come quella fatta di preziosi ceselli strumentali e vocali fino ai suoi tratti più avanguardisti e sperimentali.
E’ forte il senso di aggressività e di violenza da parte della folla nei confronti del protagonista che questa lettura fa emergere. Di Grimes, capro espiatorio, di una comunità, prende rilievo il ruolo di vittima, i tratti brutali del suo carattere sembrano, principalmente essere conseguenza di uno stigma sociale, che lo segna irrimediabilmente.
Molto efficace, nell’evidenziare il suo rapporto con la comunità, la scena del pub, con una coreografia gestuale estremamente curata, con un’articolata polifonia di caratterizzazioni ed un Grimes, che, nell’ottima interpretazione di Allan Clayton, delinea pian piano, tutti gli aspetti di un’indole estremamente controversa: follia visionaria, frustrazioni, un universo di illusioni e nel contempo un’incontrollabile violenza.
E vocalmente il tenore inglese riesce ad evidenziare in maniera significativa tali aspetti del personaggio, dai toni più lievi, quasi in falsetto, nei momenti più stranianti, ad altri caratterizzati da una cantabilità marcata, che tuttavia sa evitare monotoni toni stentorei, fino a enfatizzare con musicalità slanci melodici di ampio respiro. Altrettanto centrato il personaggio di Ellen impersonato dal soprano Maria Bengtsson, con forza, delicatezza di accenti e ricchezza di sfumature vocali.
Ottimo sicuramente il cast degli interpreti ed il coro, tutti coinvolti in un lavoro d’insieme in cui si è evidenziata una rara coordinazione tra lavoro scenico e direzione musicale, di uno spettacolo riuscitissimo, frutto di una mirabile convergenza di intenti, seguito e acclamato con convinzione dal pubblico.
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