Cantare (e suonare) in inglese, in Italia, negli anni 20

Da Beatrice Antolini ai torinesi Smile, che significa oggi cantare in inglese, in Italia?

band italiane che cantano in inglese - Smile
Il video degli Smile "Broken Kid"
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Un dibattito molto in voga nei famigerati (e ormai lontanissimi) anni Ottanta, a proposito dei gruppi indie nostrani, riguardava l’opportunità di cantare o meno in italiano. Anche se la cosiddetta new wave italiana, con Diaframma, Litfiba e in seguito CCCP, aveva sdoganato l’uso della lingua madre nel rock, l’inglese era una scelta quasi inevitabile per la stragrande maggioranza delle formazioni, quasi fosse un tratto in più per caratterizzarsi rispetto a chi faceva musica leggera, anzi leggerissima.

L’inglese era una scelta quasi inevitabile per la stragrande maggioranza delle formazioni, quasi fosse un tratto in più per caratterizzarsi rispetto a chi faceva musica leggera, anzi leggerissima.

Andava di moda dire che l’inglese serviva ad attirare un potenziale pubblico internazionale, e questa, per gruppi che a malapena riuscivano a farsi conoscere in patria, era una vera barzelletta – e non parliamo dell’esempio opposto dei Negazione, e in minor misura di altre band hardcore, che avevano avuto popolarità all’estero malgrado cantassero spesso e volentieri in italiano.

Negli anni Novanta tutto cambia. Sulla spinta dello stimolo delle posse, che nell’hip hop hanno bisogno di comunicare più facilmente con il pubblico, l’italiano diventa l’idioma obbligato, al quale si adeguano in tempi rapidi anche gruppi di matrice più rock, come ad esempio Casino Royale e Afterhours, scoprendo un potenziale espressivo che non si immaginava neppure. E da allora, non si è più tornati indietro; al punto che anche un personaggio mainstream come Elisa, che nei suoi primi dischi cantava ancora in inglese, appariva aliena e un po’ ostica. Oggi come oggi, chi vuole cimentarsi nel mondo della musica non si pone neanche il problema: l’italiano è l’unica scelta contemplabile.

Oggi come oggi, chi vuole cimentarsi nel mondo della musica non si pone neanche il problema: l’italiano è l’unica scelta contemplabile.

Salvo eccezioni, naturalmente. Che in genere sono molto degne di nota: proprio perché se si vuole andare "in direzione ostinata e contraria", un valido motivo c’è. E in genere è dovuto a una scelta stilistica che impone l’inglese come inevitabile corollario a una serie di caratteristiche estetiche che sono drammaticamente distanti da quelle nostrane. Fare musica di ispirazione straniera e cantarci sopra in italiano significa trovare un punto d’incontro fra due tradizioni spesso antagoniste, sperando di esprimere qualcosa di interessante e magari originale. Usare l’inglese vuol dire schierarsi a priori dall’altra parte della barricata, e avere fondamentalmente il solo mondo anglosassone come riferimento: rock’n’roll, it’s only rock’n’roll.

È quello che succede per gruppi come i bravissimi Clever Square o i Neko At Stella, che sembrano avere l’unica ambizione di riproporre al meglio certo rock americano, a metà tra il classicismo e il miglior indie degli anni Novanta. È quasi inevitabile per gli Sterbus di Emanuele Sterbini, che propongono una miscela con riferimenti così particolari (dai Cardiacs a Zappa agli XTC) che sarebbe impossibile trovarne degli equivalenti nel nostro paese; così come può esserlo per Beatrice Antolini, compositrice caleidoscopica che però fra le mille influenze che annovera nella sua musica non usa praticamente nulla di nativo. In altri casi la matrice musicale è così nettamente americana che l’italiano sarebbe stridente come un albino nell’Africa nera.

Ad esempio l’ex Jeremy’s Joke Bax ha in uscita un disco di rock’n’roll primigenio in cui l’inglese appare come scelta del tutto naturale. E lo stesso dicasi per i cantautori con il blues nel sangue, come Swanz dei Dead Cat In A Bag o i misconosciuti ma eccellenti Da Black Jezus, dalla Sicilia.

Oppure, per arrivare all'attualità, è il caso del disco d’esordio di un quartetto torinese, gli Smile, che non solo entra nella categoria dei gruppi italiani che cantano in inglese, ma può essere addirittura preso a modello per come rielabora nel suo sound spudorate influenze angloamericane. In The Name Of This Band Is Smile (Dotto/Subjangle) sentiamo gli echi di tantissimi nomi, e tutti di grande caratura: l’iniziale “How The Race Is Done” ha un attacco portentoso alla Hüsker Dü ma nel ritornello si stempera in un sound alla R.E.M. (ancora più evidente in “Try”), mentre all’opposto “Broken Kid” ha un mood decisamente più britannico, da qualche parte tra La’s e Weather Prophets, mentre “Just So You Know” ha quell’aggressività dell’epoca C86 che vide i Wedding Present tra i suoi migliori esponenti.

Non mancano rimandi a nomi ancora più classici, e anche se sono un po’ sempre i soliti (dai Byrds ai Velvet, semplificando) sono interpretati con una freschezza e un’esuberanza che fa pensare, benché più per l’attitudine che per il suono, agli esordi degli Smiths. Otto canzoni appena, forse nulla di veramente nuovo, ma alla fine sono dischi come questo che ci fanno pensare che “rock’n’roll is here to stay”. Ovviamente, in inglese.

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