Chi dice Sanremo dice critica.
E certo questa non è una novità: al contrario, ogni anno si aspetta con impazienza il Festival per potersi sfogare contro chiunque sia meritevole di qualche commento salace, dall’appunto sarcastico al dileggio spietato; è lo sport nazionale per le 5 giornate di maratona, e non ci scappa praticamente nessuno. Anche l’edizione 2021 ha rispettato pienamente la regola: dai Måneskin che non sono vero rock ad Achille Lauro che è tutto fumo e niente arrosto, da Fiorello ormai intrattenitore che non fa più ridere a tutti gli artisti malvestiti, stonati, inconsistenti e/o ineleganti che abbiamo visto, in gara o meno.
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Pochissime le eccezioni, tra le quali spiccano due co-conduttrici come Matilde De Angelis e Elodie, che sono state oggettivamente brave e non solo splendenti di bellezza fuori dal comune. Ma c’è un’altra categoria, in verità, che pare aver raccolto solo consensi: quella dei cantanti della vecchia generazione, quelli che erano già in attività negli anni Sessanta o poco dopo e che oggi sembrano vivere una seconda (si fa per dire: sarà come minimo la quarta o la quinta) giovinezza. In altre parole, la generazione Pfizer della musica italiana.
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E quindi lodi sperticate a Orietta Berti, che “vocalmente è una spanna sopra chiunque altro”, a Ornella Vanoni, che “mette nell’angolo qualsiasi cantante in gara”, all’ospitata multipla con Gigliola Cinquetti, Fausto Leali e Marcella Bella, a Loredana Bertè, apprezzatissima malgrado un inedito orrendo cantato in playback, perfino al redivivo Umberto Tozzi. Artisti per i quali non è un problema riconoscere la grande professionalità e preparazione, figuriamoci. Ma è difficile credere che non ci sia qualcos’altro, una sorta di ammirazione mista a rispetto per la quale ci si chiede quanto sia spontanea e quanto indotta da chissà quale condizionamento.
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Chi ha abbastanza capelli bianchi da aver vissuto la giovinezza tra gli anni Settanta e gli Ottanta sa benissimo che non è sempre stato così. Un diciottenne che si fosse dichiarato fan di Orietta o di Ornella attorno al 1980 era semplicemente inconcepibile, e sarebbe stato emarginato in men che non si dica; perfino Tozzi, se messo a confronto con cantautori di ben altro spessore, era ai tempi ritenuto indegno di considerazione. Oggi invece ne glorifichiamo la performance in un medley non propriamente irresistibile (sinceramente la voce non è parsa impeccabile); così come tendiamo a scusare paternalisticamente la stecca clamorosa di Fausto Leali, mentre al contrario non perdoniamo nessuna incertezza a Bugo, anche se il suo stile è proprio basato su questa impostazione vocale un po’ fragile e sciancata.
Che è successo? Si badi bene, non stiamo parlando di fan giovanissimi che possono essere impressionati dall’impostazione classica della voce, dal suo uso tecnico e professionale, che è ben distante dall’approccio in voga nella generazione dell’autotune; quello sarebbe forse relativamente comprensibile. Invece la fascinazione colpisce anche e soprattutto ascoltatori di mezza età, gli stessi che ai tempi della new wave avrebbero schifato chiunque avesse più di trent'anni o fosse emerso prima dell’avvento del punk.
Questa voglia di classicismo però è un dato di fatto. Da una parte è un bene: l’approccio giovanilistico per cui la fame di novità sovrastava ogni riconoscimento per ciò che non fosse nuovo era un po’ patologico – e non c’è niente di male nel riconoscere il giusto valore a cose che un tempo non si apprezzavano. C’è però anche la sensazione che questo atteggiamento vada di pari passo con una difficoltà acclarata nell’ascolto delle novità. Che i codici espressivi siano molto diversi da quelli del passato è evidente; ma sono realmente peggiori? Siamo certi che la voce impeccabile della Vanoni sia artisticamente superiore a quella nascosta e trattata di Madame? La risposta pare un inevitabile sì, ma forse è una verità fin troppo scontata, che nasconde l’incapacità di rivedere i parametri della nostra sensibilità, e di adattarli ai nuovi paradigmi degli anni Venti.
A Sanremo quest’anno c’erano parecchi nomi nuovi che forse meritavano maggior fortuna: la succitata Madame, i Coma Cose, La Rappresentante di Lista, forse persino Ghemon. Se il festival fosse davvero l’espressione della contemporaneità, forse uno di loro avrebbe vinto. E invece? È toccato ai Måneskin: che certo, non appartengono alla categoria della musica tradizionale italiana. Ma forse, invece di portare una novità, hanno solo ridefinito il concetto di tradizione: il nuovo conservatorismo è questo simulacro di rock’n’roll, talmente uguale a se stesso che già sono emerse accuse di plagio. E quindi, chissà che paradossalmente ascoltare la Cinquetti non sia effettivamente un gesto “rivoluzionario”.