L'incredibile storia degli Hatari

A Song Called Hate è il documentario dedicato alla controversa partecipazione degli Hatari all'Eurovision Song Contest a Tel Aviv

Hatari A Song Called Hate
Articolo
pop

Ci eravamo lasciati a mezzanotte di domenica 23 febbraio 2020, quando un’ordinanza comunale impose la chiusura di cinema e teatri e con essa la fine anticipata del festival Seeyousound dopo solo tre giorni di programmazione.

È trascorso quasi un anno e grazie a un lavoro incredibile, passando attraverso mille difficoltà – anche o soprattutto di natura economica, come è facilmente immaginabile – Seeyousound sta per tornare, quest’anno in versione on line, perdurando la chiusura dei cinema.

Se da un lato a noi torinesi mancherà l’atmosfera del festival, col suo contorno di incontri, chiacchiere, aperitivi e pizze mangiate a tarda ora, dall’altro la versione on line garantirà a tutti sul territorio italiano la possibilità di assistere alle proiezioni.

Tra le anteprime italiane della prima settimana di Seeyousound, da non mancare è sicuramente A Song Called Hate (disponibile dalle 9:00 del 19 febbraio, per una settimana).

Della partecipazione del gruppo islandese Hatari all’Eurovision di Tel Aviv nel 2019 si occuparono tutti i giornali, incluso il giornale della musica: il docu-film della regista Anna Hildur Hildibrandsdottir – qui al suo esordio – ricostruisce la vicenda, dai suoi contrastati preparativi fino al ritorno in patria dopo l’esibizione in terra d’Israele.

– Leggi anche: La Palestina all'Eurovision (passando per l'Islanda)

Gli Hatari sono un gruppo industrial-techno-pop che privilegia l’abbigliamento BDSM e che ha come missione l’abbattimento del capitalismo e la denuncia dell’insorgenza in Europa di fenomeni sovranisti e dichiaratamente neo-nazisti.

Lo dico subito: musicalmente parlando non sono un granché, ma questo aspetto è assolutamente ininfluente sull’esito del film, interessante e a tratti – al netto di qualche ingenuità tipica della giovane età dei protagonisti – commovente.

Non racconto la vicenda, l’ha già fatto in maniera esaustiva Arianna Scarnecchia nell’articolo segnalato: mi limito a segnalare che questo è un film che analizza il ruolo degli artisti all’interno della società odierna e che fa appello alla necessità di garantire loro la massima libertà d’espressione, senza censure politiche di qualsivoglia natura.

A tal proposito è illuminante l’intervista al primo ministro islandese Katrín Jakobsdóttir, una donna di 45 anni che pronuncia parole di libertà a cui non siamo più abituati.

Nell’attesa della loro esibizione sul palco dell’Eurovision gli Hatari prendono contatto con l’artista palestinese Bashar Murad e visitano Hebron, toccando con mano la violenza e l’insensatezza dell’occupazione militare israeliana, rafforzando così la loro intenzione di sfruttare l’occasione a loro disposizione per denunciarle di fronte a una platea di duecento milioni di telespettatori.

Ce la faranno? Vi do un indizio: al loro rientro in Islanda – uno dei due Paesi europei che hanno riconosciuto lo Stato palestinese – i loro concittadini, all’inizio in larga parte favorevoli al boicottaggio della manifestazione, li accolgono come eroi e addirittura i ministri partecipano a una riunione vestiti con i loro abiti di scena!

A Song Called Hate è senza dubbio un film politico ma è anche la storia di un sogno di un gruppo di ragazzi e delle difficoltà da affrontare per realizzarlo.

Dai, quest’anno SYS comincia bene.

Se hai letto questo articolo, ti potrebbero interessare anche

pop

Il wrapped 2024, dal Madagascar al Guatemala (passando per Kendrick Lamar)

pop

Una raccolta definitiva per (ri)scoprire uno dei chitarristi turnisti più importanti della canzone d'autore italiana

pop

Inediti e rarità per celebrare il musicista, fra canzoni e library music