Il ritorno di Kirill Petrenko a Santa Cecilia

Ascoltato in streaming il concerto romano del direttore austro-russo, col pianista Igor Levit

Kirill Petrenko
Kirill Petrenko
Recensione
classica
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia
Concerto Kirill Petrenko
23 Dicembre 2020

In questo periodo i concerti della stagione sinfonica dell’Accademia di Santa Cecilia si svolgono senza pubblico in sala ma sono visibili in diretta streaming sulla piattaforma Idagio. Unica eccezione il concerto straordinario fuori abbonamento diretto da Kirill Petrenko, trasmesso dalla Rai in diretta alla radio e in differita alla televisione ed ora visibile su Raiplay.

Un concerto eseguito dal vivo ma ascoltato in streaming è qualcosa d’insolito, che mette sottilmente a disagio gli esecutori, il pubblico e anche chi deve scriverne la cronaca. Senza soffermarci ora sui risvolti psicologici dell’ascolto solitario davanti ad un piccolo schermo invece che di fronte agli esecutori e mischiati ad altre migliaia di persone, bisogna almeno ricordare che quel che arriva all’orecchio è fortemente condizionato dalle scelte della regia del suono, in particolare per quel che riguarda le dinamiche e i rapporti tra le varie sezioni dell’orchestra. Ancor più soggettiva è la regolazione del volume, che ogni ascoltatore decide da sé. La stessa possibilità di riascoltare più volte un passaggio o l’intero brano è indubbiamente un vantaggio ma altera le normali condizioni d’ascolto. L’unica bonus rispetto a quando si ascolta un concerto in sala era la possibilità di vedere le espressioni di Petrenko. 

In queste condizioni, riferire d’un concerto è più che mai soggettivo e rischioso, tuttavia le interpretazioni di Kirill Petrenko suscitano sempre qualche riflessione. La prima cosa che colpisce è come egli sia un direttore proteiforme: per restare ai suoi ultimi concerti romani, il Petrenko che aveva diretto il Rheingold non sembrava lo stesso direttore della sua recente Nona Sinfonia.

Allo stesso modo il suono potente e compatto della Nona era molto diverso dal suono spazioso, nitido e trasparente dell’orchestra in tutti e tre gli autori - Weber, Prokof’ev e Schubert - in programma in quest’ultimo concerto: in parte era una conseguenza dell’obbligatorio distanziamento tra i singoli musicisti e della riduzione delle dimensioni dell’orchestra ma certamente era anche il risultato che Petrenko voleva.

Il tono fiabesco dell’ouverture dell’Oberon sbocciava in sfumature di colore delicatissime ma non si discostava radicalmente dalle interpretazioni tradizionali. Il Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra di Prokof’ev era invece profondamente diverso da come lo si era ascoltato finora. Di quest’opera giovanile si mettono generalmente in rilievo l’energia esplosiva e i ritmi martellanti e meccanici, la rude potenza sonora dell’orchestra e le dita d’acciaio del pianista. Petrenko non ha trascurato tali aspetti ma ha guardato anche oltre, facendo capire che questo Concerto non è affatto monolitico ma ha al suo interno colori cangianti e ritmi meno implacabili. In totale sintonia col direttore, il solista Igor Levit non ha visto nell’esigentissima scrittura pianistica soltanto l’occasione per un’esibizione di forza e di tecnica – come facevano e fanno tanti pianisti di scuola russa ed ora cinese - ma ha valorizzato la varietà di indicazioni (piano,pianissimo, rallentando, espressivo, dolce, dolcissimo) disseminate nella partitura. Questo pianismo asciutto ma ricco di rifrazioni e di colori non appariva molto diverso da quello di Ravel: un raffronto che fino a ieri sarebbe sembrato folle e che non ci sarebbe mai venuto in mente senza ascoltare il Prokof’ev di Levit.

La Sinfonia n. 9 “La Grande” di Schubert concludeva il concerto riportandoci all’incirca alla stessa epoca dell’Oberon. Basata su piccole cellule melodiche e ritmiche che non conoscono veri sviluppi ma vengono ripetute a lungo più o meno immutate, questa Sinfonia costituisce un serio problema per ogni direttore, che deve cimentarsi con una forma ampia e complessa – secondo alcuni non perfettamente padroneggiata da Schubert – e non può fare affidamento, tranne che nel secondo movimento, su quelle seduzioni melodiche, quel tono intimo e quelle riflessioni malinconiche, quando non profondamente pessimistiche, che costituiscono il fascino di tanta musica di Schubert. Petrenko è riuscito a conciliare questi due aspetti, da una parte smussando la grandiosità di questa Sinfonia e dall’altra scoprendo ripiegamenti e velature che la riportavano più vicina allo Schubert che meglio conosciamo e più amiamo. Alla fine, l’assenza degli applausi ci ha riportato alla situazione alquanto spoetizzante - poltrona e televisore – in cui abbiamo seguito questo concerto, in attesa di tempi migliori.

 

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