Ascoltatori appassionati, collezionisti irriducibili, indomiti sognatori, enciclopedie viventi: dopo i tanti uomini e donne che, pur avendo un altro lavoro, fanno dei dischi e della musica una delle attività più importanti della loro quotidianità, Selfie con dischi parte ora con la sua seconda serie, alla scoperta delle collezioni di chi con la musica ci lavora tutti i giorni: giornalisti, critici, addetti stampa…
Ai loro mondi di musica, professionali ma anche privati e personali, dedichiamo un veloce ritratto in cui possono raccontare se stessi, la loro passione e, soprattutto, suggerirci un sacco di ascolti!
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Dopo Giulia Cavaliere e Paolo Besana, ospite di questa puntata è Carlo Bordone.
Nome e cognome: Carlo Bordone
Età: 52 anni
Professione: giornalista, copywriter, docente di comunicazione
Dischi posseduti: Non li conto da parecchio. Tanti, ma sempre troppo pochi per quello che servono. Equamente suddivisi tra vinili e cd.
Generi preferiti: Odio la risposta “un po' di tutto”, perché è tanto generica quanto insincera. Personalmente so di avere diversi limiti e qualche idiosincrasia immotivata (musica italiana in primis). Provo a elencare: rock'n'roll, pop, indie rock, punk, garage, psichedelia, power pop, folk, soul, r&b, funk, glam, brasiliani, cantautori sfigati, un po' di elettronica. Ok, un po' di tutto.
Quante ore di musica ascolti mediamente al giorno e in che momenti?
«Ascolto musica in continuazione. Mentre lavoro, in auto, con le cuffie quando sono in giro. Ovviamente la combinazione ideale è sempre la stessa di quando ero ragazzo: sdraiato sul divano, con lo stereo acceso e una rivista di musica tra le mani. Non ci sono situazioni migliori per ascoltare musica. A pensarci bene almeno un paio di situazioni migliori ci sarebbero. Ma non ne sarei così sicuro».
L'ascolto professionale e quello per piacere sono momenti distinti nella giornata o si mescolano? Raccontaci.
«Sono cose diverse e tendo a separarle. Se devo scrivere di un disco, o sto ripassando la discografia di un musicista su cui devo fare un articolo, l'ascolto è più focalizzato e attento. Magari riascolto la stessa traccia di seguito più volte, mi appunto delle impressioni, e così via. Oggi scrivo molte meno recensioni di una volta, ma c'è comunque l'ascolto “professionale” per rimanere aggiornati su quello che esce, e lì molto spesso basta una passata veloce, se ritengo che il disco meriti più attenzione ci torno sopra. In generale rispetto a venti o trent'anni fa ho un ascolto più estensivo e meno intensivo, che poi è solo un altro modo per dire che ascolto di più ma ascolto peggio. Con le dovute eccezioni, oggi un disco si deposita molto meno nella memoria. C'entra l'età, c'entrano gli impegni, c'entra che le possibilità di ascolto sono pressoché infinite e a un certo punto arriva l'effetto saturazione».
«In generale rispetto a venti o trent'anni fa ho un ascolto più estensivo e meno intensivo, che poi è solo un altro modo per dire che ascolto di più ma ascolto peggio. Con le dovute eccezioni, oggi un disco si deposita molto meno nella memoria».
C'è un formato (vinile, cd) che preferisci. Nel caso perché?
«D'istinto mi verrebbe da dire vinile, ma per nessuna valida ragione tranne la passione per l'oggetto. Tutte le menate nostalgiche sul “suono caldo” del vinile non mi hanno mai convinto, anzi almeno nel caso dei vinili nuovi è esattamente l'opposto. Si sentono male, sono pressati da schifo e comunque la fonte è digitale. Costano anche in modo sproporzionato, far pagare un vinile nuovo trentacinque o quaranta euro è un furto legalizzato. Però l'oggetto in sé è stupendo, uno dei più belli mai inventati dall'uomo. Non ho mai avuto niente contro i cd, soprattutto negli anni Novanta e Zero mi ci sono riempito la casa. Lì c'è il discorso opposto rispetto al vinile: si sentono meglio ma il packaging è orribile. Tanto più oggi, con questi digipack squallidissimi senza neanche uno straccio di libretto. Il booklet per me è sempre stato il valore aggiunto di un cd, ho imparato di più leggendoli dalla prima riga all'ultima che con tutte le enciclopedie di questo mondo».
«Questa cosa del fantasticare su una canzone che non riesci a riascoltare perché ti manca il disco oggi è incomprensibile. Era un po' una rottura di coglioni, ma in qualche modo era anche magico».
«Non per niente una delle mie perversioni sono i box set, i cofanetti o come li si vuol chiamare. Ne comprerei a tonnellate, anche di roba che ho già in altro formato. Soprattutto quelli cosiddetti “clamshell”: scatolina con tre-quattro cd, un bel libretto ciccioso tutto da leggere e pieno di foto, insomma il paradiso. Per quanto riguarda lo streaming, lo utilizzo come chiunque altro. Nessuna preclusione ideologica. Ma per forma mentis (e di nuovo, per l'età) l'ascolto “vero” per me rimane quello di vinili e cd con l'impianto hi-fi».
Quando hai comprato il tuo primo disco? Ti ricordi qual era e ce lo racconti brevemente?
«Il primo disco che ho comprato con i miei soldi (“miei” si fa per dire) è stato il Live at Central Park di Simon & Garfunkel. Avevo tredici anni, era appena uscito. Qualche mese prima avevo sentito per radio "Mrs. Robinson" e ne avevo fatto una malattia, mi aveva letteralmente stregato. Sulla base di un solo ascolto, ovviamente, perché nel 1981 non avevo YouTube o Spotify a portata di mano. Questa cosa del fantasticare su una canzone che non riesci a riascoltare perché ti manca il disco oggi è incomprensibile. Era un po' una rottura di coglioni, ma in qualche modo era anche magico. Tra l'altro ero convinto che fossero una persona sola, un tizio che si chiamava Saimonegarfanchel. Immaginarsi quando ho visto la copertina con quei due sopra, il nanetto e il ricciolone stempiato. Comunque avevo già qualche altro disco regalato a Natale o per il compleanno. Uno su tutti: il Disco Blu dei Beatles, forse l'album che ho ascoltato di più nella vita. Anche perché per due anni ho avuto solo quello».
Dove acquisti principalmente dischi?
«Cerco di farlo nei negozi, quei pochi che resistono. Nella mia città (Torino) fortunatamente ce ne sono ancora quattro o cinque molto forniti che batto regolarmente. Quando sono in altre città, un giro in qualche negozio cerco sempre di farlo. Mi piace anche comprare ai banchetti dopo i concerti o durante i festival, mentre non mi hanno mai appassionato più di tanto le fiere: troppo casino, troppa scelta e troppi avvoltoi. Acquisto anche in rete: mai su Amazon, quasi sempre tramite Discogs oppure direttamente dai siti delle etichette o di qualche negozio specializzato».
Esiste un disco che hai amato tanto e che ora non riesci più a ascoltare, che non ti piace più? Quale e perché?
«No, non esiste. Se ho amato un disco lo amo ancora oggi, anche se magari non lo riascolto da anni. Sono rimasto in buoni rapporti con tutti i miei dischi, come con le ex fidanzate. Cioè, spero».
Possedendo tutti quei dischi, quante volte in media ascolti in un anno un disco nuovo?
«Dipende. Per molti non supero una o due volte, quelli che mi piacciono posso riascoltarli parecchio. Non so, l'ultimo album di Weyes Blood, uno dei miei dischi dell'anno scorso, l'avrò ascoltato per intero diverse decine di volte».
Ci sono dischi recenti che pensi ascolterai ancora tra 10 anni?
«Non ne ho la più pallida idea. Chissà che farò tra dieci anni, chissà come e se ascolteremo musica. Provo a fare il ragionamento inverso e penso a dischi del 2010 che ascolto ancora oggi, e sul momento non me ne viene in mente nessuno. Io sono convinto che esca sempre tantissima ottima musica, la mia passione è quella di sempre, ma appunto c'è quel discorso sulla difficoltà a sedimentarsi, sulla parcellizzazione dell'ascolto e di conseguenza della memoria, sull'information overload… Mettiamola così: se per dischi recenti si intende dischi usciti in questi ultimi mesi probabilmente no. Perché l'ultimo periodo della mia vita che vorrò ricordare tra dieci anni saranno proprio questi ultimi mesi».
Quali sono i tre dischi che più hai ascoltato (o ritieni di avere ascoltato) nella tua vita di ascoltatore e quelli che più hai ascoltato negli ultimi mesi?
«Nella vita il Disco Blu beatlesiano di cui sopra, Dusty in Memphis di Dusty Springfield e poi boh, va a sapere. Credo uno tra Forever Changes dei Love, Marquee Moon dei Television, Warehouse: Songs and Stories degli Hüsker Dü, uno dei tre Big Star, Life's Rich Pageant dei R.E.M, Odessey & Oracle degli Zombies, e migliaia di altri. Tra quelli usciti quest'anno direi Song For Our Daughter di Laura Marling, Suite for Max Brown di Jeff Parker e The Cycle dei Mourning [A] BLKstar».
Dovessi consigliare un solo disco (lo so, uno è tremendo, ma è un gioco, dai) della tua collezione a una persona che non lo conosce, quale sarebbe?
«Lasciando stare i classici, cito un mio disco di culto che casualmente ho riascoltato da poco ma che comunque amo follemente: From Home to Home dei Fairfield Parlour, che poi erano i Kaleidoscope inglesi con un altro nome. A parte il fatto che è un bellissimo disco, pieno di canzoni straordinariamente melodiche, con una copertina stupenda e evocativa, possiede quella rara qualità di portarmi con la fantasia in uno dei miei luoghi della mente preferiti, che è un'Inghilterra immaginaria sospesa tra il primo Novecento e la fine degli anni Sessanta. Ho adorato talmente tanto questo disco e gli altri dei Kaleidoscope/Fairfield Parlour che cinque anni fa sono andato in giornata a Londra per vederli in un occasionale concerto di reunion. In realtà era solo il cantante, con in qualche pezzo il batterista originale, insieme a una giovane band folk-psichedelica, i Trembling Bells. Ascoltare quelle canzoni, una sera a Londra, facendo finta che fosse il 1967 o il 1968, è stata un'esperienza assolutamente magica. Quelle che solo la musica pop riesce a farti vivere».