Dalla metà degli anni Settanta, più o meno, alla grande crisi del 1991, l'epoca d'oro del city pop è stata la sfavillante colonna sonora dell'ultima impennata del boom, il ritratto in musica di un Giappone illuso di correre e grandi falcate verso un futuro da superpotenza e che invece si sarebbe ritrovato a sbattere i denti contro la risacca – politica, sociale, economica e culturale – del “decennio perduto”.
Un brusco e traumatico risveglio dopo i giorni delle estati assolate e dei cieli blu cobalto, dei tramonti rosso fuoco e delle spiagge romanticamente deserte, delle notti metropolitane e degli amori adolescenziali cantati dagli eterni ragazzi del city pop.
Non un genere, e nemmeno un ambito musicale definito e precisamente circoscritto. Un sentire diffuso, piuttosto, una sorta di “sentimento” condiviso da una folta ed eterogenea pattuglia di autori, interpreti, arrangiatori, musicisti e produttori dalle sensibilità a volte lontanissime (e in ruoli spesso interscambiabili).
Complicato insomma inquadrare il fenomeno in maniera univoca. Anche perché a volere fare i pignoli con gli agganci e i rimandi c'è di che diventare pazzi. Dalla disco al funk, dal soul all'easy listening e all'exotica, passando per la fusion più levigata e liquida, il jazz inteso come “mood”, il soft rock da piani altissimi delle classifiche e una generosa dose di elettronica, il city pop, con lo sguardo rivolto all'Occidente e fedele a un'idea tutta giapponese di perizia tecnica e di virtuosismo, ha fagocitato praticamente di tutto.
Sakamoto e gli altri, alla riscoperta del Giappone elettronico
Fin dagli esordi, dall'esperienza fondante (per quanto sui generis dal punto di vista estetico) degli Happy End di Eiichi Ohtaki e Haruomi Hosono, entrambi destinati a un futuro da eminenze (tutt'altro che grigie) del city pop (e oltre: basti citare la Yellow Magic Orchestra). Anche se a volere fissare un punto zero forse bisognerebbe spostarsi in avanti fino al 1975, anno del primo e unico disco degli Sugar Babe delle future stelle Tatsuro Yamashita e Taeko Ohnuki, prodotto da Ohtaki per la sua Niagara Records. Un passo deciso – anche in termini di connessioni – verso l'esplosione definitiva, che di lì a poco sarebbe stata sancita dall'uscita di Sunshower della Ohnuki e Spacy di Yamashita (ai quali tra gli altri lavorano Hosono e Ryuichi Sakamoto).
Poi l'euforia collettiva degli anni Ottanta, le milionate di dischi venduti, il massimo dello splendore (anche creativo) e l'inevitabile declino. Il tutto riassunto in dieci canzoni? Ci proviamo. Buon ascolto.
1. Tatsuro Yamashita - "Love Space" (1977)
Impossibile non iniziare il viaggio da Spacy e da Tatsuro Yamashita, tra i pesi massimi della musica pop giapponese, autore eccelso e incredibilmente continuo, arrangiatore e produttore instancabile. “Love Space” è la canzone che apre il disco e che spalanca le porte di una nuova era: il pianoforte e la batteria a palleggiarsi l'intro, un accenno di violini vagamente disco, la chitarra funky in controluce, la ficcante linea di basso, l'inevitabile solo di sax... semplicemente: perfetta.
2. Taeko Ohnuki – "4 A.M." (1978)
Con Ryuichi Sakamoto in cabina di regia e Haruomi Hosono al basso, Taeko Ohnuki, l'altra metà degli Sugar Babe, tocca uno dei vertici della sua lunga carriera due anni prima che inizi il decennio d'oro degli Ottanta. Il disco, Mignonne, in realtà non sfonda, ma la strepitosa “4 A.M.”, con la sua infinita carrellata di preziosismi e variazioni (compreso un fantastico solo di Sakamoto alle tastiere), difficilmente esce dalle orecchie dopo esserci entrata.
3. Mai Yamane - "Tasogare" (1980)
Prima di prestare la voce calda e graffiante a “The Real Folk Blues”, sigla dell'anime-capolavoro Cowboy Bebop, Mai Yamane ha vissuto i suoi cinque minuti di gloria grazie a "Tasogare" (crepuscolo). Inquieto e notturno, obliquamente rock, l'omonimo brano piazzato in apertura di disco, arrangiato dal geniale Makoto Matsushita (sue le chitarre liquide e le tastiere sornione), è diventato nel tempo un piccolo oggetto di culto tra i cacciatori di sampler.
4. Eiichi Ohtaki – "Ame no Wednesday" (1981)
Finalmente sotto i riflettori dopo una decina d'anni trascorsi dietro le quinte, l'ex Happy End pubblica il disco della vita. A Long Vacation (un milione di copie nel giro di un niente e ottavo posto nella classifica assoluta di vendite degli anni Ottanta) è uno dei testi sacri del pop giapponese, cesellato con cura maniacale da un incisore sopraffino. Dentro un bel po' di Phil Spector, un pizzico di Brian Wilson, e canzoni indimenticabili come “Ame no Wednesday”.
5. Anri – "Last Summer Whisper" (1982)
Prototipo della cantante-ragazzina, l'allora poco più che ventenne Anri si misura con una canzone scritta da Toshiki Kadomatsu, gigante al pari di Yamashita per costanza, presenza e originalità. Il risultato è la quintessenza del lato estivo e balneare del city pop: cinque minuti di nostalgiche effusioni scandite da soffici coretti, tastiere innamorate, polvere di fiati sull'immancabile basso funky e un languido solo di armonica a chiudere il cerchio.
6. Takako Mamiya – "Mayonaka no Joke" (1982)
In una galassia così affollata di stelle, non poteva mancare una meteora. Un solo disco e poi tanti saluti. Ma che disco! Love Trip, fin dalla copertina firmata da Teruhisa Tajima (lo stesso che tra le tante ha disegnato quelle di Black Beauty di Miles Davis e Flood di Herbie Hancock), si piazza perfettamente al centro dell'immaginario city pop; e al centro del centro, al numero tre della scaletta, spicca la meravigliosa “Mayonaka no Joke”. La voce distaccata e languida, il controcanto dei fiati, il basso funky, gli svolazzanti tappeti di tastiere, l'assolo finale di chitarra: che altro chiedere?
7. Tomoko Aran – "I'm in Love" (1983)
Altro oggetto di culto recentemente ristampato in vinile, Fuyü-Kükan, disco numero tre della cantante Tomoko Aran, strizza l'occhio in maniera convinta all'elettronica (anche azzardata) e a sonorità più smaccatamente eighties. Perla tra le perle, “I'm in Love” esce dal coro grazie all'impeccabile arrangiamento (quelle tastiere!) e all'irresistibile ritornello. Il singolo perfetto.
8. Mariya Takeuchi – "Plastic Love" (1984)
Moglie e collaboratrice fissa di Yamashita, non solo osannata interprete ma anche apprezzata autrice, la super stella Mariya illumina il cielo degli anni Ottanta con un classico stra-ascoltato e pluri-depredato dai minatori operosi del future funk e della vaporwave. Facile capire il perché lungo i quasi otto minuti di una hit da manuale, tra funk urbano e levigatezze pop. Inevitabile.
9. Toshiki Kadomatsu – "Can't You See" (1988)
Succede questo: che un pezzo grosso come Toshiki Kadomatsu si metta in testa di lavorare a un nuovo disco facendo ruotare arrangiatori e produttori. Risultato: per “Can't You See” i servigi sono quelli della premiata ditta Arto Lindsay-Peter Scherer (al secolo Ambitious Lovers), che decide di portare in studio due chitarristi da niente come Vernon Reid e Bill Frisell. Tokyo chiama, New York risponde.
10. Tatsuro Yamashita – "Marmalade Goodbye" (1988)
Da Yamashita a Yamashita. Doverosa chiusura nel segno del maestro, che dopo il botto di Ride on Time, uscito nel 1980, e una serie clamorosa di dischi a bersaglio, si avvia verso la porta d'uscita del decennio con Boku no Naka no Shounen, a conferma di una vena inesauribile. Una canzone? “Marmalade Goodbye”, summa e sintesi di quella nostalgia color pastello che fa da sfondo al tramonto del city pop.