Dall’inizio dello scorso dicembre Tolo tolo di Checco Zalone è il film di cui tutti parlano, e da una decina di giorni è anche quello che tutti vanno a vedere: i risultati in sala dopo due weekend sembrano effettivamente destinati a eclissare quelli – già stratosferici – dei precedenti film di Zalone, l’uomo che più di chiunque altro ha saputo riempire i cinema italiani nell’ultimo decennio.
Che di Tolo tolo tanto si parli, che si polemizzi (all’occorrenza) da destra e da sinistra, e che anche dalla stessa parte non vi sia unanimità su come interpretarlo (buonista? Politicamente scorretto? Moscio? Potente?) certifica definitivamente lo status raggiunto da Checco Zalone, all’alba del terzo decennio del secolo: non ci si può permettere più di non avere un’opinione su di lui.
Da un lato, le molte lodi, anche da parte di quelli che fino a poco tempo fa avremmo detto “insospettabili”, confermano come a Zalone stia toccando un riconoscimento critico – uno “sdoganamento”, se preferite – di cui pochi autori comici italiani hanno goduto in vita (perlopiù, serve essere morti per essere finalmente “capiti”). È un indizio generale di come la critica italiana (e il gusto, e le estetiche) stiano cambiando, dando credito a fenomeni “pop” anche senza dover ricorrere alla foglia di fico del trash, della fruizione ironica, del guilty pleasure.
Dall’altro, questa attenzione racconta – mi pare – un rinnovamento delle categorie attraverso cui ci approcciamo a questo genere di oggetti, ai quali siamo finalmente pronti a riconoscere una ricchezza di livelli, di usi, di intenzioni, senza incasellarli necessariamente nella categoria del “film di cassetta”, come se il successo di massa fosse una roba brutta, e il successo dei film italiani ancora più brutto (perché Hollywood è pur sempre Hollywood). D’altra parte, anche la cassetta non esiste più, ed è forse ora di aggiornarsi.
È un percorso che riguarda anche la musica, naturalmente, ed è capitato di discuterne su queste pagine (ad esempio a proposito della intrinseca inattualità di una categoria come “canzone d’autore”, e della sua scarsa efficacia per descrivere fenomeni contemporanei e “diversi”).
Uno degli accessi più interessanti per capire l’operazione di Zalone in Tolo tolo è proprio quello musicale.
Il riferimento alla musica non è casuale, perché uno degli accessi più interessanti per capire l’operazione di Zalone in Tolo tolo è proprio quello musicale. Zalone nasce come cantante. La sua fama come comico televisivo e cinematografico molto deve alla sua abilità di imitatore di musicisti (Carmen Consoli, Jovanotti) e cantautore in proprio, con all’attivo almeno un brano epocale, una delle canzoni più significative (e spassose) del pop italiano degli anni Dieci, “Uomini sessuali”. ("Gli uomini sessuali sono gente tali e quali come noi, noi normali / Sanno piangere, sanno ridere, sanno battere le mani / Proprio come noi, persone sani").
(E potremmo anche ricordare come lo stesso Zalone – con il suo vero nome, Luca Medici – sia anche autore della colonna sonora dei Tre moschettieri di Giovanni Veronesi, insieme ai collaboratori storici Giuseppe Saponari e Antonio Iammarino).
Dal canto suo, Tolo tolo è stato annunciato al mondo con un trailer che trailer non era: la canzone “Immigrato”.
Il tema è a dir poco caldo, e tanto è bastato per scuotere dal loro torpore gli editorialisti prima del letargo natalizio. È lecito o no fare ironia su cose serie come i migranti? Zalone è leghista? È sovranista? Razzista? Oppure: è pericoloso quello sta facendo? Non è che Zalone sta giustificando atteggiamenti xenofobi, per non dire fascisti?
Immigrato
Quanti spiccioli ti avrò già dato
Immigrato
Mi prosciughi tutto il fatturato
Qualcuno (sull’Huffington Post) è arrivato persino a ricordare che «nella Germania di Weimar si cantava nei cabaret di Berlino […] una canzone a sfondo umoristico dedicata agli ebrei», e poi guarda come è andata a finire. Ma altrettanto interessante è il filone opposto di reazioni, quello di quanti si sono sentiti in dovere di spiegare che era una parodia – cosa su cui, in realtà, non sembravano esserci molti dubbi davvero. A quanto pare non è così ovvio: anche tra i commenti a “Uomini sessuali” su YouTube abbondano quelli che sentono il bisogno di mostrare di aver capito la barzelletta, o di spiegarla agli altri (rompendone, di fatto, l’effetto comico).
La potenza di “Immigrato”, e il motivo per cui ha saputo sconcertare molti, è che è una parodia, sì, ma non particolarmente intelligente all'apparenza.
In realtà, la potenza di “Immigrato”, e il motivo per cui ha saputo sconcertare molti, è che è una parodia, sì, ma all'apparenza non particolarmente intelligente. O meglio: il genio di Zalone sta proprio nell’averne costruito il testo quasi come senza volersi sforzare troppo: l’immigrato al semaforo, l’immigrato all’uscita del supermercato, l’immigrato che arriva fino in casa (“Ti ritrovo senza permesso nel soggiorno”), l’immigrato che seduce la libidinosa donna italiana sono dei veri tòpoi nella narrazione degli extracomunitari in Italia almeno dall’epoca degli sbarchi dall’Albania, se non prima. Ma è una caratterizzazione, anche linguistica, perfettamente in linea con il personaggio-Checco Zalone, che da sempre incarna una certa tipologia di italiano, un certo tipo di discorso "medio".
Che Zalone sia un personaggio è un elemento che sembra spesso sfuggire a molti commentatori. E ancora una volta, certi contenuti sono molto più problematici se vengono espressi in forma di canzone, rispetto al cinema. Se il cinema può mostrare pressoché ogni abiezione umana in un personaggio (in fondo di fiction si tratta), la canzone sembra non avere questa licenza, quasi esistesse un patto di verità tra un cantante e quello che canta. È un meccanismo complesso, che per esempio Goffredo Plastino aveva riconosciuto in relazione al repertorio di malavita (nel suo Cosa nostra social club, il Saggiatore 2014), e che probabilmente molto deve anche alla centralità che la figura del cantautore ha avuto nella storia culturale italiana.
Che Zalone sia un personaggio è un elemento che sembra spesso sfuggire a molti commentatori.
In effetti, così come Zalone cantava “Uomini sessuali” con una vocalità da neomelodico, in “Immigrato” va a riprendere il modo di cantare di Celentano, filtrato attraverso “L’italiano” di Toto Cutugno, che a sua volta quella vocalità riprendeva. Il brano di Cutugno è esplicitamente citato nell’arrangiamento e nel giro armonico, insieme a “Il tempo se ne va” di Celentano: i due brani sono molto simili, ma del resto Cutugno è l’autore di entrambi. Zalone sta cioè rifacendo un certo tipo di canzone italiana, quella canzone degli anni Ottanta che a sua volta guardava nostalgica verso gli anni Sessanta… e che nel caso specifico dell’“Italiano” giocava esplicitamente con certi stereotipi di italianità.
Insomma, “Immigrato” già spiegava il punto chiave di Tolo tolo senza neanche dover andare al cinema. Ovvero che Zalone (e sembra davvero di scoprire l’acqua calda) parla degli italiani più di quanto non parli dei migranti africani. E d’altra parte, fra i personaggi africani del film si fanno ricordare Oumar (Souleymane Silla), l’amico di Zalone appassionato di cultura italiana che legge Il compagno di Pavese e cita Accattone, e il coprotagonista del video di “Immigrato” (Maurizio Bousso), che appare ad Agadez con una maglia della Roma; entrambi personaggi “molto italiani”, direbbe Stanis La Rochelle. E poi, la canzone neanche c’è nel film, se non in versione strumentale: ma quando compare – potenza della musica – a chi la conosce (cioè a tutti: siamo vicini ai 10 milioni di visualizzazioni su YouTube) subito evoca quel mondo, quel soggetto, quei cliché… e il dibattito collegato.
Anche il resto della musica di Tolo tolo chiarisce i contorni dell’operazione di Zalone, e in particolare le canzoni di repertorio scelte per la colonna sonora. Ci sono “La lontananza” di Domenico Modugno, che segna l’arrivo ad Agadez dei protagonisti, e “L’Arca di Noè” di Sergio Endrigo, alla partenza della barca che deve attraversare il mare: due sequenze (soprattutto la seconda) tanto dolci e delicate quanto inaspettate, nel ritmo da road trip del film. C’è Nicola Di Bari (anche presente nel ruolo del cattivissimo zio) con “Vagabondo”, che accompagna la partenza del viaggio di Zalone e che è anche, non a caso, un inno degli emigranti italiani (e pugliesi in particolari) all’estero.
E se non bastassero i rimandi alla canzone italiana, a quelle canzoni e a quei suoni che più di altri sanno ricordarci il nostro essere parte di una comunità nazionale, ci sono “Viva l’Italia” di Francesco De Gregori e “Italia” di Mino Reitano, che accompagna la psichedelica sequenza in cui Checco immagina un’Italia tutta nera, con la nazionale composta da undici simil-Balotelli che cantano l’inno mano sul cuore, con neri yuppies milanesi che parlano come personaggi di un cinepanettone, un papa nero…
Ha scritto Andrea Minuz sul Foglio che Zalone è oggi uno dei pochi registi che gli italiani «sa metterli davanti al più spietato, gigantesco specchio deformante dai tempi della grande commedia all’italiana di Scola, Sordi, Age e Scarpelli, Monicelli». È vero, e ha ragione lo stesso Minuz a riconoscere nello Zalone autore di canzoni (ma, aggiungerei, compilatore di colonna sonora) una delle sue cifre più originali. Come nei momenti musical in mezzo al mare, con un brano (“Tolo tolo”) che attacca un po’ come una “Una notte in Italia” di Fossati, ma cantato con la voce di Renato Zero; o come “La cicogna strabica”, canzone per bambini che chiude la bella fiaba di Tolo tolo, è anche un po’ una marcetta anni Trenta, forse…