Claudio Paletto, navigato filmmaker torinese, presenta Acqua passata, il suo ultimo corto (mezz’oretta scarsa), una riflessione assolutamente realistica su una generazione che aveva vent’anni a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, a partire da un racconto di Stefano Giaccone.
Acqua passata sarà proiettato il 1° febbraio alle ore 18.00 nella Sala 2 del cinema Massimo di Torino, nell'ambito del festival Seeyousound, con un evento speciale con ospiti Stefano Giaccone e i Franti – una sorta di reunion per la band torinese.
Questo evento ci dà lo spunto per farci raccontare da lui la genesi e i retroscena del film.
Da dove arriva l’idea di Acqua passata?
«Gli spunti sono stati molteplici: tutti conosciamo Stefano Giaccone, artista multidisciplinare e motore di due gruppi musicali fondamentali quali i Kina e i Franti, con cui sono amico da anni. Mi è capitata tra le mani una sua raccolta di racconti e sono stato particolarmente colpito da “Fratelli”, che è diventato l’asse portante di questo progetto».
«Parallelamente mi sono interessato all’operazione portata avanti dal cosiddetto Superottimisti, un archivio regionale di pellicole di famiglia, girate perlopiù nel formato super 8, nato nel 2007 e dal 2015 acquisito dall’Associazione Museo Nazionale del Cinema di Torino: i materiali forniti dai cittadini (filmini di comunioni, cresime, vacanze, primi giorni di scuola, gite, ecc.) sono stati restaurati, digitalizzati, archiviati e messi a disposizione per ricerche o realizzazioni di audiovisivi. Mi è piaciuta l’idea di attingere immagini da questo archivio e rimontarle per usarle in questo progetto, non come semplice supporto alle parole del racconto, ma, a volte, in contrasto, col desiderio che risultassero stridenti, nella loro gioiosità, rispetto alla durezza della storia narrata da Stefano. Ci ho messo un anno per portare a termine questo lavoro di selezione».
«In quegli anni, con la stessa naturalezza, un giovane poteva mettere in piedi un gruppo punk, dedicarsi alla realizzazione di videoclip, andare a lavorare in Africa, ammazzarsi di eroina o entrare a far parte di un gruppo terroristico, uscire di casa armato, ammazzare qualcuno e farsi trent’anni di galera».
«Ho usato in maniera simile anche la musica: quando ci sono le parole non c’è la musica e viceversa. Quando entra è una lama e, come la lama, procura ferite: nel complesso mi andava l’idea di omaggiare il free cinema americano degli anni Cinquanta e Sessanta. Stefano, in compagnia di tre straordinari musicisti inglesi, ha registrato quella che è poi diventata la colonna sonora in una notte passata in una chiesa metodista nel Somerset: è una musica sporca, debitrice nei confronti del free jazz. I titoli di coda, molto importanti, scorrono inframmezzati da vecchie foto che ritraggono tutti coloro che hanno lavorato al film su una ballata scritta da Stefano e da Giorgio Mirto, una sorta di omaggio a Domenico Modugno e al film Uccellacci e uccellini di Pasolini».
Evitando di raccontare le vicende del film, che tecnica hai usato per raccontare lo spaesamento del protagonista al suo ritorno a Torino dopo trent’anni di assenza?
«Questo è fondamentalmente un film di montaggio, al cui interno faccio comparire dei primi piani di Stefano, sempre immobile mentre intorno a lui le persone, le auto, i mezzi pubblici, si muovono così rapidamente da diventare delle scie sfuggenti. Non solo non ci sono più le persone di un tempo ma anche la città gli è diventata irriconoscibile. Mi rendo conto che questi stacchi possono risultare disturbanti, un po’ come gli interventi musicali, ma è proprio il risultato che volevo ottenere».
Lasciando perdere quelli della nostra generazione, che reazione ti aspetti da parte degli spettatori più giovani?
«Questa è la cosa che più mi incuriosisce. È la prima volta che giro un film – per carità, una cosa breve – su quegli anni e il desiderio è stato, in un paese che non ha mai fatto i conti con quel periodo e che anzi ha sempre cercato di fare opera di rimozione, quello di far capire come i confini fossero veramente labili e quindi facilmente superabili: con la stessa naturalezza, un giovane poteva mettere in piedi un gruppo punk, dedicarsi alla realizzazione di videoclip, andare a lavorare in Africa, ammazzarsi di eroina o entrare a far parte di un gruppo terroristico, uscire di casa armato, ammazzare qualcuno e farsi trent’anni di galera. I giovani questo non lo sanno, nessuno gliel’ha raccontato. Devo riconoscere un certo coraggio agli organizzatori del festival: questo non è strettamente un film musicale, anche se Stefano è un musicista, c’è una colonna sonora e il ritmo del racconto ha un andamento secondo me musicale, parla d’altro ma è piaciuto ugualmente. Dai, speriamo che non se ne debbano pentire [ride].
Cosa dobbiamo aspettarci alla prima del film?
«Ricchi premi e cotillons. Vogliamo fare una cosa diversa e i ragazzi del Seeyousound hanno subito fatto loro la nostra proposta: Stefano ha preparato una base musicale con interventi della voce di Lalli [storica cantante dei Franti] e dieci musicisti che hanno gravitato nell’orbita dei Franti saranno seduti in mezzo al pubblico, una sorta di Franti Sound System, ognuno dotato di un piccolo amplificatore, e interagiranno per dare vita a Il Suono della Memoria, colonna sonora della proiezione di spezzoni di video amatoriali provenienti dal già citato archivio Superottimisti. Sarà una cosa coinvolgente o almeno ce lo auguriamo».
«Parafrasando Godard, non faccio cinema politico, è il modo in cui faccio cinema a essere politico».
Il Giornale della Musica è Media Partner di Seeyousound Festival.