Avishai Cohen, sulle orme di Davis
Il trombettista Avishai Cohen in concerto a Jazzmadrid con il suo quartetto
Il trombettista israeliano Avishai Cohen a Jazzmadrid con il suo quartetto.
Quando nel jazz il suono della tromba si rivolge ad una modalità espressiva che, in qualche modo, tende a privilegiare l’elemento lirico e meditativo, i modelli di Chet Baker e Miles Davis quasi inevitabilmente stanno sullo sfondo, a indicarci quella svolta che questo strumento ebbe nel trovare risorse timbriche – nei registri bassi e con l’uso della sordina – fino ad allora inesplorate.
E senza dubbio la cifra espressiva del trombettista israeliano Avishai Cohen, nel concerto con cui si è presentato al festival di Madrid, ne conferma l’affiliazione e il senso di continuità (e del resto lo stesso Cohen in più riprese ha dichiarato di volersi ispirare soprattutto a Miles Davis).
Nella sua voce strumentale, e nelle articolate costruzioni, proposte con il suo quartetto, c’è un diffuso senso di quasi religiosa introspezione, uniti ad una notevole perfezione tecnica, rispetto ad un’espressione più sofferta, quale quella dei lontani modelli della West Coast.
Fin dall’approccio iniziale, colpisce la coordinazione dell’ensemble, nel brano "I Will Die" - dedicato alle vittime della guerra siriana – soprattutto per la duttilità e la ricchezza dei disegni dell’articolata poliritmia, mai invasiva, del batterista Ziv Ravitz, unita all’intenso lirismo e al fraseggio fantasioso, imprevedibile della tromba di Cohen.
C’è un procedere del gruppo che – liberandosi dello schema: tema/improvvisazioni/ripresa del tema – procede per scarti; scarti fatti di digressioni repentine, in cui gli episodi improvvisativi aprono nuovi squarci tematici, finanche delle riprese, dove sullo sfondo si può intravedere, anche, una intenzione narrativa e contenutistica.
E in un evidente richiamo a valori nonviolenti che un brano come "Shoot Me in the Leg", mescola scarti atonali, cluster, elementi tematici ossessivi, con il pianoforte di Yonathan Avishai capace di sapienti mimetismi stilistici, in lunghi soli fatti di una nervosa rapsodicità ma anche di evocazioni del più tradizionale e, direi quasi arcaico, pianismo jazz: un’esecuzione estremamente articolata che chiude, in un dialogo tra il contrabbasso di Barak Mori, che si dipana, perdendosi e svanendo poco a poco mescolandosi tra le note lunghe del suono della tromba.
C’è quindi, di nuovo, l’elemento lirico, di una chiara evocazione davisiana, della tromba con sordina del tema "Life and Death" e per poi lasciare spazio al trio, in "Dream Like a Child", con Cohen che lascia la scena ai tre straordinari componenti dell’ensemble: è ancora il pianoforte di Yonathan Avishai a muoversi in digressioni ad ampio spettro, da un assunto quasi solenne, verso territori romantici e quindi verso altri, densi di ritmicità, supportato da una sezione ritmica costantemente mutevole, con cenni di swing che affiorano qua e là, per chiudere con il ritorno della tromba di Cohen in una languido e meditativo assunto melodico.
Il concerto è decisamente coinvolgente. Avishai Coehn inoltre sa comunicare con il pubblico, con brevi ed efficaci interventi, senza piaggerie: c’è da parte sua la recitazione di una poesia della poetessa ebrea, Zelda Schneersohn Mishkovsky; quindi, con "Theme for Jimmy Greene" e con "Into the Silence", ancora, gli elementi di questa estetica, densa di un mimetismo cangiante, si presentano più serrati e più densi, con una sentita partecipazione da parte del pubblico, di un auditorium gremito per tutti gli ordini di posti, e con generose offerte di bis da parte dei musicisti.
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