François-Xavier Roth: il direttore come cittadino

Intervista al fondatore di Les Siècles e da tre stagioni direttore musicale della Gürzenich-Orchester di Colonia 

François-Xavier Roth
François-Xavier Roth, foto di Hartmut-Naegele
Articolo
classica

Probabilmente non ha il carisma dei grandi del passato ma François-Xavier Roth rappresenta al meglio la declinazione contemporanea della figura del direttore d’orchestra: iperattivo, inclusivo, eclettico e soprattutto aperto alle contaminazioni fra repertori e discipline diverse.

Il suo repertorio spazia dalla musica del XVII secolo fino alla contemporanea e attraversa molti generi, dalla sinfonica alla cameristica e spesso anche l’opera. Con l’orchestra Les Siècles, da lui fondata nel 2003, preferisce le esecuzioni storicamente informate ossia con gli strumenti del tempo dei compositori. Ma non rifiuta di salire sul podio di orchestre tradizionali: è spesso ospite dei Berliner Philharmoniker, della Staatskapelle di Berlino, della Royal Concertgebouw di Amsterdam, della Boston Symphony e della Tonhalle di Zurigo, della London Symphony Orchestra e della SWR Sinfonieorchester di Freiburg e Baden-Baden, di cui è stato direttore musicale fra il 2010 e il 2016.

François-Xavier Roth

Da tre stagioni è Gürzenich-Kapellmeister e Generalmusikdirektor della Città di Colonia, definizione di sapore militaresco che descrive il suo impegno sia come responsabile della ricca stagione sinfonica della Gürzenich-Orchester che della qualità musicale dell’Opera di Colonia, che lo vede impegnato in due produzioni a stagione. Impegni artistici a parte, Roth è anche un musicista militante, impegnatissimo a sostenere la funzione educativa della musica attraverso, fra l’altro, la direzione del Panufnik Composers Scheme della London Symphony, che offre a giovani compositori la possibilità di perfezionarsi nella scrittura orchestrale, e la Jeune Orchestre Européen Hector Berlioz, un progetto di orchestra-accademia fondato nel 2009 in collaborazione con il Festival Berlioz di La Côte-Saint-André nell’Isère. E, se non bastasse, con i musicisti di Les Siècles non si esibisce solo nelle sale da concerto ma anche in carceri e ospedali come vuole un’orchestra “citoyen”, un vero soggetto fra quelli che fanno vivere una città. Con questi musicisti, Roth ha inventato Presto!, pillole musicali in forma di serie televisiva di successo per France 2 con oltre tre milioni di spettatori ogni settimana. 

Alla Staatenhaus di Colonia si è appena conclusa l’ultima delle sei rappresentazioni di Die Soldaten, vera e propria sfida direttoriale per l’eccezionale complessità dell’opera di Bernd Alois Zimmermann, e Roth ci incontra per parlare con trasporto del ruolo del direttore d’orchestra, delle sue passioni e del ruolo della musica nella nostra società. 

Un aspetto che colpisce della sua esperienza di musicista è la vastità e varietà del suo repertorio. È finita l’epoca degli specialisti? 

«Credo sia una questione generazionale. Ho avuto la fortuna di essere adolescente durante l’apogeo della specializzazione nella musica barocca e nella musica contemporanea. Il primo direttore a essere un esempio per me è stato sicuramente Simon Rattle, uno dei primi a confrontare repertori distanti ponendosi la questione di esecuzioni molto “informate” dalla musica antica alla musica moderna».

«Un direttore d'orchestra è anche un un “attore culturale” che orienta il modo in cui la musica entra nella vita della gente».

«Nella mia generazione credo abbiamo bisogno di fare musica semplicemente con la cultura, che è diversa da quella di chi ci ha preceduto. Voglio dire che io ho beneficiato del lavoro di chi mi ha preceduto, come Harnoncourt e Gardiner per il barocco ma anche di Boulez e di Stockhausen per la contemporanea. La storia dell’interpretazione segue dei cicli. La specializzazione è sicuramente una tendenza che ha una sua giustificazione e che non criticherei mai, ma la mia generazione si muove in un orizzonte più ampio. Sono convinto si possa fare musica in modi diversi. Il mio è semplicemente diverso da quello di chi decide di dedicarsi completamente a un’estetica e a un’epoca precisa della storia della musica. Non lo rifiuto affatto, anzi credo sia un approccio appassionante».

Cos’è per lei un direttore d’orchestra? 

«È molte cose allo stesso tempo. È certamente qualcuno che deve avere un carisma o un’aura per riuscire a giustificare la sua posizione rispetto all’orchestra e le sue proposte interpretative. Questo è il primo aspetto, un po’ banale se vogliamo. Poi c’è la scelta dei programmi, aspetto che definisce un percorso attraverso quello che il pubblico deve ascoltare. È anche, però, qualcosa di prossimo a un attore, molto importante nella “cité”, nella città o nella regione. È un “attore culturale” che orienta il modo in cui la musica entra nella vita della gente. Da un lato, rappresenta l’investimento di portare la musica a chi non ha necessariamente l’abitudine di ascoltarla, e, dall’altro, di offrire proposte musicali o un repertorio o una traiettoria di repertorio. Un direttore d’orchestra è tutto questo». 

Qualcuno ha scritto: “Simon Rattle o Alan Gilbert sono fra i primi a capire che il direttore d’orchestra non è nient’altro che l’albero che nasconde la foresta. Per i francesi, Roth è senza dubbio colui che ha negoziato meglio questo punto di svolta.” (Rémy Louis « L’homme-orchestres », Magazin de la Philharmonie de Paris, 26 gennaio 2018)Si ritrova in questa descrizione? 

«Posso dire che il lavoro di molti direttori è per me fonte di ispirazione, anche per come incarnano il loro ruolo. E penso a qualcuno come Barenboim o Fischer e molti altri. Credo che il luogo geografico conti così come contano le convinzioni profonde su come la musica deve svilupparsi nella nostra società. In questo senso, uno dei miei “eroi” è Pierre Boulez, perché era un musicista, prima ancora che direttore d’orchestra o compositore, che aveva delle convinzioni talmente potenti da riuscire a segnare un percorso per sviluppare la musica nella nostra società».

«Qual è il confine fra entertainment e musica colta? Su questioni come queste occorre essere militanti, combattenti, per ricordare a tutti che le cose non sono tutte uguali e che c’è un senso nelle differenze».

«Questo è un aspetto molto importante, perché oggi viviamo sfortunatamente in un momento nel quale molte cose tendono a confondersi. Per esempio, qual è il confine fra entertainment e musica colta? Su questioni come queste occorre essere militanti, combattenti, per ricordare a tutti che le cose non sono tutte uguali e che c’è un senso nelle differenze. Personalmente amo essere promotore della creazione contemporanea, per esempio, ma creazione di oggi come di ieri e di musiche che siano importanti per noi, di musiche che ci proiettino in qualche cosa di sconosciuto e appassionante. Non ascoltiamo necessariamente le stesse cose con la stessa disposizione d’animo, ma ci proiettiamo collettivamente in qualcosa di nuovo. Ci assumiamo dei rischi insieme». 

Quando parla di “creazione di ieri” allude ai recuperi importanti di cui lei è stato protagonista come per esempio il Saint-Saëns de Le timbre d’argent, presentato a Parigi nella scorsa stagione? 

«Sì, parlo di quello. Mi è interessato molto poter restituire all’ascolto un lavoro come Le timbre d’argent. Quell’opera di Saint-Saëns, in particolare, fa parte del mio impegno sul recupero della musica romantica francese che mi sta molto a cuore, e particolarmente il recupero di lavori completamente dimenticati. Lo stesso vale per il lavoro che ho fatto su Hector Berlioz ma anche su altri compositori francesi, che sono stati rifiutati o dimenticati per motivi diversi». 

Arriviamo al suo lavoro con l’orchestra Les Siècle, che lei ha fondato e continua a dirigere. Lei ha dichiarato che “Les Siècles si proiettano al di là della loro missione musicale, è un’orchestra citoyen”. Cosa significa? 

«“Citoyen” significa che è un’orchestra che ha una coscienza di ciò che può e che deve sviluppare come attività nella “cité”, nella città o piuttosto nella nostra società civile. È qualcosa di grande, di più grande della musica che fa. Può essere di una regione o di un quartiere, può essere dei bambini o delle persone anziane. Può anche essere trasmissione di conoscenze, può essere pedagogia. Ma può essere anche un ospedale o un carcere. Fin dalla sua fondazione, abbiamo sviluppato questa idea con l’orchestra in un’azione molto incisiva e intensa. È un aspetto che mi interessa molto perché credo davvero che un’orchestra debba svilupparsi non solo sul piano musicale, che resta comunque fondamentale, ma anche con una coscienza quasi sociale o politica».

«Credo davvero che un’orchestra debba svilupparsi non solo sul piano musicale, che resta comunque fondamentale, ma anche con una coscienza quasi sociale o politica».

«Con Les Siècles portiamo avanti dei progetti importanti: i suoi musicisti vanno negli ospedali tutte le settimane a suonare per chi soffre, abbiamo sviluppato delle orchestre amatoriali. Abbiamo anche sviluppato un’attività di formazione per i giovani studenti che si interessano agli strumenti francesi dell’epoca di Berlioz. Abbiamo creato un’orchestra sinfonica e un coro in una grande banca francese, la Société Générale, che ogni anno offre dei concerti. Tutto questo vuol dire per me orchestra “citoyen”: è un’orchestra che agisce per le persone che vivono in una cité, cioè in una comunità urbana». 

Qual è per lei la funzione della musica? 

«Fatte salve alcune particolarità, la musica è come le altre arti e nella nostra società è l’arte ciò che rende l’uomo diverso da un animale, ciò che permette all’uomo di diventare grande senza limiti, nella sua intelligenza, nella sua sensibilità, nella sua cultura in un senso molto vasto. Penso anche che l’arte, e dunque la musica, sia necessariamente un mezzo che consente alle persone di capirsi meglio tra di loro. Non riesco proprio a concepire che la musica possa allontanare le persone. Al contrario, la musica avvicina come conseguenza del fatto che ci aiuta a comprendersi meglio. Ma senza spingerci troppo in là, penso che la musica sia una scommessa sull’intelligenza dell’essere umano e sulla sua infinita sensibilità. Ci sono aspetti nella personalità degli individui che riusciamo a raggiungere con la musica, aspetti che molto spesso non si accettano facilmente nella vita quotidiana». 

Una parte significativa del suo impegno di musicista, soprattutto a Colonia, è concentrato sulla musica contemporanea. Qual è il senso di questo impegno? 

«Quando sono arrivato a Colonia ho scoperto un’orchestra che aveva una storia assolutamente straordinaria e ho anche appreso la storia musicale della città di Colonia. Per esempio, non sapevo che Mahler ha composto la Quinta sinfonia in questa città, non conoscevo esattamente tutto quello che Stockhausen aveva fatto in questa città, o perché quando Ligeti ha lasciato l’Europa orientale ha voluto stabilirsi in questa città. Ho scoperto tutto questo, così come ho scoperto la singolarità di questa grande città che, è sì la quarta per popolazione in Germania, ma ha un centro molto compatto in cui si trova una concentrazione di istituzioni culturali assolutamente eccezionale. Non conosco altre città al mondo con altrettanti musei, sale da concerto, teatri in uno spazio così contenuto. C’è un’alta densità di cultura a Colonia. Quando ho cominciato a pensare a ciò che volevo programmare con la Gürzenich-Orchester, lo studio della storia di quest’orchestra mi ha spinto a continuare ciò che è sempre stata e ha sempre fatto, un po’ meno forse negli ultimi anni prima del mio arrivo: un’orchestra al vertice della modernità e con una forte dinamicità nella creazione musicale. Dunque, attraverso la creazione, celebriamo anche la tradizione musicale di quest’orchestra. In altre parole, cerco di continuare la tradizione della Gürzenich-Orchester come attore centrale nella creazione di avanguardia». 

In concreto, cosa ha pensato per la prossima stagione della Gürzenich-Orchester? 

«Completeremo con Lab.Oratorium la trilogia cominciata due stagioni fa con il compositore Philippe Manoury, un appuntamento molto importante per noi perché si tratta di una forma nuova. Manoury è molto interessato a sviluppare e dispiegare l’orchestra sinfonica in prospettive nuove. Sarà qualcosa di innovativo sul piano della struttura dell’opera ma con molti contatti con temi di forte attualità come le migrazioni, di cui molto si parla in Europa. Avremo anche una magnifica prima assoluta di un pezzo di Hèctor Parra, grande compositore catalano, immaginato come un viaggio nel cosmo in omaggio all’astrofisico Stephen Hawking, recentemente scomparso. Avremo anche due creazioni ispirate a Robert Schumann: un ciclo di lied orchestrali di Stefano Gervasoni e un capriccio di Jean-Frédéric Neuburger. Cerco sempre di mettere in prospettiva riferimenti che hanno o assumono un senso in relazione all’Orchestra. Per questo, nella prossima stagione al centro ci sarà Robert Schumann, un autentico figlio del Reno, benché non direttamente collegato a Colonia ma legato comunque a questa regione. Continueremo l’esplorazione in linea con la formidabile tradizione e competenza della Gürzenich-Orchester nella sua musica». 

E fra gli altri appuntamenti? 

«Ridaremo la Terza sinfonia di Gustav Mahler, alla cui prima esecuzione assoluta nel 1902 ha preso parte quest’orchestra, e poi ci lanceremo in diverse direzioni, perché a me interessa mostrare che un’istituzione musicale come questa è un organo vivo, in dialogo con il passato, il presente e il futuro. Un’orchestra sinfonica è davvero un’istituzione che può essere estremamente dinamica e che può aprire nuovi orizzonti. È quello che provo a fare a Colonia». 

Parliamo del suo impegno all’Opera di Colonia, che nella prossima stagione la vedrà sul podio per Salome La Grande-Duchesse de Gérolstein

«Sarà appassionante. È da molto tempo che mi preparo ad affrontare le opere di Richard Strauss dopo aver diretto tutta la sua musica sinfonica, per la quale ho da sempre un grande interesse. Salome verrà riproposta dopo molti anni a Colonia e quindi sono particolarmente felice di essere io a riportarla in scena. Invece con LaGrande-Duchesse deGérolstein celebreremo un figlio di Colonia come Jacques Offenbach. È un’altra parte di me… Sì, sono un po’ schizofrenico! [ride] Adoro questa musica leggera, piena di humour, di intelligenza, di sarcasmo, di ironia. Ed è anche come fare l’occhiolino: Offenbach è nato a Colonia ma ha fatto tutta la sua carriera a Parigi, mentre io sono nato a Parigi e faccio la mia carriera, almeno in parte, a Colonia. È davvero un ponte fra due città, due culture e per questo sono particolarmente felice di essere coinvolto in questa produzione proprio qui a Colonia». 

Lei ha detto: “Utilizzando strumenti del XIX secolo non soltanto il peso dell’orchestra cambia rispetto ai cantanti instaurando un equilibrio vero ma soprattutto ci si ritrovano nuove informazioni sui tempi” (Classicagenda, maggio 2015). Vuole spiegare? 

«Quando si pratica la musica antica, sia essa dell’epoca barocca, classica o romantica o anche di cent’anni fa, con gli strumenti che i compositori conoscevano, si entra in contatto diretto con la realtà del compositore. Non si tratta di qualcosa di sperimentale o di fantasioso, ma di molto concreto. Quando si fa questa esperienza, si può capire ciò che era impossibile o “estremo” per l’esecutore dell’epoca. Possiamo quindi conoscere tutti i parametri della composizione, come poteva suonare e quale peso “ideale” avesse».

«Il direttore d'orchestra è un passeur, un traghettatore, ossia qualcuno che può far passare informazioni e esperienze anche senza doverle spiegare con le parole. È questa la magia della direzione d’orchestra».

«Trovo che sia un lavoro non soltanto appassionante ma, direi, essenziale, perché si entra in contatto diretto con ciò che il compositore ha potuto vivere personalmente, con la realtà degli strumenti che conosceva».

Ma ci sono differenze quando si fa Mozart o Saint-Saëns con Les Siècles piuttosto che con la Gürzenich-Orchester oppure no? 

«Con Les Siècles ho già fatto quell’esperienza e so quindi esattamente come suona un pezzo. Posso quindi portare lo stesso pezzo nella Gürzenich-Orchester senza difficoltà. In fondo questo è il vantaggio di un direttore d’orchestra: è un passeur, un traghettatore, ossia qualcuno che può far passare informazioni e esperienze anche senza doverle spiegare con le parole. È questa la magia della direzione d’orchestra».

A questo proposito, le cito un’altra sua affermazione: "non c’è niente di più stupido della tecnica della direzione d’orchestra!" È un incitamento ai giovani a lasciar perdere la professione? 

«Certamente no, ma è vero che la tecnica non esiste! La tecnica esiste per un pianista, per un violinista, ma non per un direttore d’orchestra. Perché i gesti che un direttore deve fare sono del tutto stupidi, non hanno alcun interesse. Il gesto esiste per comunicare, per facilitare e per far capire ai musicisti come devono suonare insieme. È tutto qui. La sola vera tecnica per un direttore d’orchestra sarebbe di far dimenticare ciò che fa».

«I gesti che un direttore deve fare sono del tutto stupidi, non hanno alcun interesse. La sola vera tecnica per un direttore d’orchestra sarebbe di far dimenticare ciò che fa».

«Un altro modo per dire che in realtà non esiste. Quando si vedono direttori che fanno grandi gesti molto estetici è per lo specchio, forse per la telecamera o magari per il pubblico. Di sicuro non per i musicisti o la musica, che non ne ha certamente bisogno. Battere il tempo in 2, in 3, in 4 o in 5 è qualcosa che si può insegnare in cinque minuti a chiunque». 

Vale anche per Die Soldaten di Zimmermann, che ha appena finito di dirigere a Colonia? 

«Un momento! Non parlo di tecnica del braccio. In un’opera come quella, il direttore diventa una sorte di centrale nucleare o di computer, che capisce tutto ciò che c’è nella partitura e lo trasforma nella realtà dell’esecuzione. Ma non è tanto una questione di braccio, quanto di cervello. Il braccio non fa che eseguire ma è il cervello che riflette sulla musica e sul come tradurla in qualcosa di reale, distribuendo i compiti a ogni musicista». 

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