Il richiamo ancestrale delle sirene di Sánchez-Verdú 

Dopo Schwetzingen approda a Mainz Argo, dramma in musica di José Maria Sánchez-Verdú ispirato a un racconto di Pascal Quignard 

Argo 
Argo 
Recensione
classica
Mainz, Staatstheater (Kleines Haus)
Argo 
27 Aprile 2018 - 06 Giugno 2018

Non ne parla il XII canto dell’Odissea e non ne parla nemmeno Circe nella sua rievocazione della vittoriosa impresa degli Argonauti. Eppure anche Bute era uno di loro almeno nel racconto di Apollonio Rodio nelle sue Argonautiche, ed è l’unico a gettarsi in acqua per inseguire le sirene e il loro richiamo irresistibile. Quel richiamo che nemmeno il canto di Orfeo riesce a trattenere a bordo dell’Argo come gli altri marinai. Come le belve feroci, anche le sirene tacciono soggiogate dalla bellezza di quel canto ma Bute non sente che il loro richiamo e salta nel mare. Quello “slancio verso l’animalità interiore” ha reso Bute (o Boutès alla francese) protagonista di un racconto di Pascal Quignard di qualche anno fa, che Gerhard Falkner ha trasformato in un libretto intriso di reminescenze mitologiche per Argo, il nuovo “dramma in musica” di José Maria Sánchez-Verdú, ripreso allo Staatstheater di Mainz a un mese dalla prima assoluta al Festival SWR di Schwetzingen. 

Strutturato in sette scene precedute da una introduzione e separate a metà da un interludio senza voci, il dramma è costruito sui quattro personaggi di Bute, Orfeo, Ulisse e Giasone dalla forte valenza archetipica così come l’unica presenza femminile, incarnazione della sirena ma anche di Medea e Afrodite, che, nel mito, salva Bute dai flutti marini. Bute è l’uomo diviso fra il primordiale richiamo della natura, le sirene, e quello dell’arte di Orfeo, che si contrappone con il suo canto e uno strumento “fabbricato dalle mani di un uomo” per marcare il ritmo di un gruppo di uomini forzati del remo. Ma rovesciando il giudizio comune su Ulisse, che Quignard aborre perché resiste a quel richiamo primordiale attraverso l’astuzia, Bute è l’eroe perché si abbandona senza reticenze e artifici alla forza primigenia della musica. Interessanti sulla carta, i fertili spunti drammaturgici, benché spesso irrisulti in un’astrazione che sfiora l’intellettualismo, trovano nella partitura di Sánchez-Verdú una realizzazione che convince solo in parte. Quel che manca è soprattutto una marcante caratterizzazione musicale dei personaggi-archetipo e uno sviluppo drammatico incisivo che superi il monocorde landscape sonoro dal segno generico quando non convenzionale, specie nelle elaborazioni di live electronics. Va riconosciuto comunque che la realizzazione musicale della Philharmonisches Staatsorchester di Mainz, guidata per l’ultima recita in cartellone dallo stesso Sánchez-Verdú come a Schwetzingen, e del SWR Experimentalstudio per l’elettronica è di spessore, così non è mancato l’impegno dei solisti vocali Jonathan de la Paz (Bute), Alin Deleanu (Orfeo), Brett Carter (Ulisse), Martin Busen (Giasone) e Maren Schwier

Non aggiunge molto alla forza di questo dramma in musica la timida regia di Mirella Weingarten, capace almeno di qualche bella immagine nella semplice scatola scenica predisposta da Etienne Pluss, che chiude fra tre pareti uno spazio acquatico. In quell’acqua immobile le sagome nude delle sirene vellicano il desiderio dei marinai e verso quell’acqua immobile si protende Bute come anelando un ritorno all’amniotica cavità materna, che si compie con il suo salto nel finale. 

Tutti occupati i 400 posti del Kleines Haus allo Staatstheater di Mainz per tutte e quattro le recite in programma. Qualcuno abbandona prima della fine, ma chi resta applaude convinto. 

 

 

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