Sono un po’ i “gemelli del gol” del jazz italiano, i Mancini e Vialli dei linguaggi più legati alla stagione di fuoco della musica afroamericana. Attivi sin dagli anni Settanta, il tenorista Daniele Cavallanti (era nei mitici Aktuala), e il batterista Tiziano Tononi hanno attraversato quasi 40 anni di storia del nostro jazz con la loro “creatura” Nexus, gruppo a struttura variabile, ma che ha sempre ruotato attorno a questi due musicisti e alla loro intensità progettuale e umana.
Tanti i dischi che in questi anni hanno segnato l’avventura di Nexus, molti dei quali hanno coinvolto colleghi americani di straordinario profilo, dal compianto Roswell Rudd a Herb Robertson, passando per Mark Dresser o Glenn Ferris. Il recente Experience Nexus! (Rudi Records) è un’intensa summa delle loro tante ispirazioni e emozioni, condivisa con alcuni musicisti italiani delle generazioni più recenti.
Abbiamo approfittato dell’occasione per una lunga chiacchierata con Tononi e Cavallanti.
Partirei dal disco più recente, Experience Nexus!, uscito per la Rudi Records: come nasce e come ci avete lavorato?
TIZIANO TONONI: «Nexus è il progetto di più lungo corso cui io abbia mai preso parte, e certamente quello che per certi versi mi ha rappresentato di più negli anni – che ormai sono 38 nel 2018 – compatibilmente al fatto che un periodo di tempo così ampio, da rappresentare di fatto praticamente tutta la mia vita “adulta” nella musica, prevede necessariamente cambiamenti spesso importanti, a volte anche tellurici. Nel nostro caso, vuoi per una “chimica” fortunata, vuoi forse per la capacità che abbiamo avuto di mutare con i tempi, rimanendo comunque fedeli ad alcune caratteristiche per noi irrinunciabili del modo di fare musica e di proporla, siamo ancora “on the road” e mi pare molto arzilli. L’idea di progettare, di lavorare a costruire i presupposti e i percorsi con i quali poter esprimere la nostra idea di musica, e di jazz oggi, è ancora per me uno stimolo molto importante e straordinariamente potente, e a differenza di molte delle cose che sento, di qua e di là dall’oceano, continua ad essere un’emanazione diretta della mia anima di musicista e della mia idea del mondo, che rappresenta appieno ciò che ero e che sono diventato, dopo aver navigato in acque molto diverse tra loro, ma tutte alla fine facenti parte di un unico grande sistema».
«Ogni disco che abbiamo fatto con Nexus, e sono dieci con quest’ultimo, è stato ed è lo specchio di una straordinaria avventura che certamente nè io né Daniele avremmo immaginato così longeva e vitale, ma che diventa e rimane stimolante ogni volta che viene testata sul “campo”, e questo è, per quel che mi riguarda, il motore di Experience Nexus!, la voglia di (ri)costruire nuove coordinate per nuovi interpreti, e dunque nuove sensibilità, di misurarsi con un rapporto tra scrittura e improvvisazione che per me è molto mutato nel tempo, e continua ad avere una natura dialettica con i musicisti che partecipano di volta in volta alle nostre scorribande. Uno degli aspetti che più mi affascina di questa musica, che ostinatamente mi piace continuare a chiamare jazz, è di continuare a (ri)creare un rapporto di mutua collaborazione – per citare qualcuno che mi è piaciuto molto, di togetherness. Per come poi si sono “evolute” le questioni che riguardano l’accesso alla discografia oggi, è stato necessario e utile stabilire un rapporto, che spero fecondo per entrambi, con Massimo Iudicone della RudiRecords, che si è subito mostrato interessato ad averci nel suo catalogo, e con cui ci siamo dati una prospettiva di più ampio respiro, per poter continuare appunto a progettare con uno sguardo lungo fino al 2023, con una trilogia Nexus che prevede un’uscita ogni tre anni, quindi dopo questo ci sarà il 2020, e poi il 2023, quindi stay tuned!».
DANIELE CAVALLANTI: «Dal 2007 Nexus è, di base, un quintetto con Emanuele Parrini, Silvia Bolognesi e Achille Succi, fino al 2014 circa, poi sostituito da Francesco Chiapperini. È un nucleo e un insieme di personalità magici; pur suonando raramente, quando ci ritroviamo scatta sempre qualcosa, forse quella Complete Communion di cui parlava Don Cherry... Ultimamente abbiamo fatto anche alcuni concerti con Pasquale Mirra così, quando Massimo Iudicone ci ha proposto un nuovo lavoro, abbiamo pensato di unire il vibrafono di Pasquale al quintetto base. A quel punto, per completare e arricchire il sound, abbiamo invitato anche Gabriele Mitelli con la sua pocket trumpet e cornetta. Come sempre, Tiziano ed io ci siamo divisi l’onere e l’onore di preparare il materiale compositivo, in parte già pronto e provato in alcuni concerti. Al Festival di Iseo 2017 abbiamo presentato Experience Nexus dal vivo col settetto al completo, con Alberto Mandarini al posto di Mitelli».
Nexus ha negli anni sempre mutato pelle senza mutare mai pelle, potremmo dire. Il progetto di base è molto solido e riconoscibile, ma nei decenni si sono alternati musicisti differenti, con una grande attenzione a quelli delle nuove generazioni, penso appunto alla presenza di Mitelli, Chiapperini, Bolognesi... Cosa hanno apportato questi artisti in termini di idee, visione, al di là della creatività personale strumentale?
TIZIANO TONONI: «La forza di una leadership sta nel potersi confrontare nel tempo con linguaggi ed interpreti differenti, senza per questo perdere la propria specificità, e senza dover derogare a questo o quel principio, se lo si giudica fondante del proprio essere in musica. È un esercizio cui credo ci siamo sottoposti in prima persona sia io che Daniele, nel tempo abbiamo dovuto fare i conti con la progressiva diversità che ci accomuna, e anche se quanto sto dicendo potrebbe sembrare un paradosso, è proprio questo il vero legame, o Nexus, che nel tempo ha permesso alle cose tra noi di svilupparsi modificandosi, senza rompersi, ma invece accogliendo in una sorta di Tai-Chi musicale i movimenti e le direzioni altrui, trasformandoli in positività e facendone buon uso. In questo senso, pur nelle differenze – e siamo molto più diversi di come comunemente veniamo percepiti dall’esterno – io e Daniele eravamo “destinati” non solo a suonare insieme, ma a fare di questa idea l’utopia della vita, in fondo a chi uscendo dagli anni Settanta non sarebbe piaciuto sognare di mettere in piedi un collettivo che potesse durare per sempre, ed essere il veicolo primo dell’espressione individuale e collettiva delle proprie idee?».
«In fondo a chi uscendo dagli anni Settanta non sarebbe piaciuto sognare di mettere in piedi un collettivo che potesse durare per sempre?»
«Per me l’esempio potevano essere stati gli Allman Brothers della “Big House” di Brothers And Sisters, con quella copertina in cui erano rappresentati tutti insieme musicisti, roadies, fidanzate, bambini, cani e quant’altro, forse per Daniele gli Oregon di Friends e Distant Hills, comunque un gruppo di persone che condivideva la vita, e dunque anche il suo centro, la musica. Questo noi abbiamo sognato, mischiando freaks e politicizzazione, capelli lunghi e rigore musicale, tradizione e avanguardia, nella scia di coloro che sono stati, e per certi versi continuano ad essere, i nostri punti di riferimento nel modo di intendere il jazz e nel modo quindi di operare…il blues con i suoi interpreti acustici ed elettrici, e poi Mingus, Coltrane, Ornette, Don Cherry, Paul Bley, Sun Ra, Ayler, Shepp, Charlie Haden e la Liberation Music Orchestra, la Jazz Composer’s Orchestra, Roswell Rudd e Steve Lacy, Cecil Taylor, la AACM e l’Art Ensemble of Chicago, il BAG di St. Louis con Julius Hemphill, e la lista potrebbe continuare».
«Cambiare nel tempo, senza perdere identità, innanzitutto presuppone l’idea di occuparsi di linguaggi – cosa che per molti versi trovo non particolarmente “di moda” oggi, almeno qui da noi – cercando di adeguarli a una contemporaneità con cui è essenziale non perdere il filo, e proprio in questo senso la presenza nel gruppo di musicisti di generazioni posteriori alla nostra diventa una garanzia, quasi una polizza, che ci permette di confrontarci con un pensiero articolato, diverso dal nostro anche se compatibile, per tenere in equilibrio le diverse componenti interne che fanno di Nexus quello che tutti ci riconoscono: una realtà forte, multiforme, cangiante, riconoscibile, ma non cristallizzata o peggio nostalgica, grazie anche all’adattamento costante e continuo tra queste due componenti dialettiche, da un lato la necessità di avere un centro di gravità permanente, e dall’altro di poter spaziare, ondeggiando fino al limite e oltre , per avventurarsi in nuovi territori. Avventura è la condizione necessaria, curiosità la parola chiave che trovo manchi molto a una parte cospicua delle nuove generazioni, i cui interpreti sono spesso più preoccupati di essere “belli” musicalmente, che non di sostanza, performanti anziché preoccupati di che cosa farsene delle capacità che hanno acquisito, e tutto questo rende ancora più speciali i musicisti che scegliamo e con cui suoniamo, perché li riteniamo consoni a “viaggiare” con noi, e ad esprimersi con tutta la libertà che ciascuno di loro riesce a ricavarsi all’interno delle coordinate che di volta in volta la musica assume».
DANIELE CAVALLANTI: «Come è naturale, in quasi quarant'anni di attività abbiamo alternato molti musicisti e molte formazioni diverse, ma direi che il sound Nexus, pur cambiando timbricamente, è rimasto sempre inalterato e riconoscibile. Nel corso dei decenni l’ingresso di musicisti più giovani ha contribuito ad apportare, oltre a nuova linfa ed entusiasmo nel gruppo, uno sguardo più ampio e fresco sulla scena musicale del nuovo millennio, pur senza mai tradire lo spirito che ci guida da sempre. Le coordinate che Tiziano e io diamo ai musicisti, nelle nostre varie composizioni, sono generalmente piuttosto precise e decise, ma al tempo stesso lasciamo ampia libertà di contribuire con proposte e idee».
La vostra esperienza fa chiaro riferimento, ne avete appena accennato, a un mondo afroamericano dai contorni ben definiti (Coltrane, Coleman, la New Thing, l'AACM, l'Africa, il rock anni Settanta, John Carter in questo nuovo disco), già storicizzato, sebbene ancora fertile di stimoli. A un commentatore smaliziato verrebbe forse da chiedere: ma dei linguaggi di oggi, americani o europei o extraeuropei, ce ne sono alcuni che interessano Tononi e Cavallanti?
DANIELE CAVALLANTI: «È difficile formulare una risposta precisa riguardo l’influenza di linguaggi e stili attuali. Da un punto di vista generale il jazz si presta sempre a contaminazioni di ogni genere, perché storicamente è una musica aperta, promiscua, che accoglie. Gli stili e i generi si sono modificati nel tempo, dando origine a forme espressive diverse che, in alcuni casi, hanno condiviso i percorsi del jazz; vi sono dei movimenti musicali che sono espressione di ribellione verso alcuni temi che potrebbero benissimo rappresentare, in chiave attuale, le più aspre lotte del passato. Tuttavia, per quanto mi riguarda personalmente, nessuno dei linguaggi “nuovi” americani, europei o extra europei (ad esempio il jazz scandinavo) hanno, finora, stimolato la mia attenzione tanto da spingermi a una virata di stile, o ad avere un diverso atteggiamento rispetto alla creazione/costruzione dei miei brani. Almeno per il momento…».
TIZIANO TONONI: «Guarda, qui andiamo direttamente a toccare uno dei nodi principali che caratterizzano la differenza tra la mia generazione e alcune di quelle successive, e certamente le nuove. Il punto è uno e semplice, a me e a noi piace il jazz, quello di Bessie Smith e Billie Holiday come quello di Jeanne Lee e Jay Clayton, quello di Ben Webster, Flip Phillips, Don Byas e Lucky Thompson così come quello di Roscoe Mitchell, Threadgill, Braxton, Jimmy Lyons e Dewey Redman, Duke Ellington e Fletcher Henderson ma anche Sun Ra e Don Ellis, e potrei continuare così fino alla noia».
«Venivo dal rock, studiavo classica ma ho scelto comunque il jazz per l’energia, il calore, la capacità di condivisione, l’identificazione forte dei musicisti con quello che propongono».
«Chi di quelli che hanno trent’anni, poco più o poco meno, si è preso la briga di andare a sentire la metà di quelli che ho citato? Per parlare del mio strumento, chi conosce oggi batteristi come Andrew Cyrille, Milford Graves, Sunny Murray che ci ha lasciato da poco, Beaver Harris o Ronald Shannon Jackson? Chi conosce le cose straordinarie fatte da Barry Altschul con Paul Bley o Corea, o il fantastico Trio di John Surman e Barre Phillips con Stu Martin alla batteria? C’è un enorme misunderstanding rispetto alla collocazione di questo o quel musicista, ("e no, ma quello è free..."), e poi non sai magari niente del percorso che lo ha portato a elaborare un linguaggio più avanzato e complesso, senza peraltro rinunciare mai al rapporto viscerale e fecondo con le radici di quel linguaggio stesso. Ho in mente sempre Cyrille, da Mary Lou Williams, Walt Dickerson e Roland Kirk a Cecil Taylor, Beaver Harris da Sonny Rollins ad Albert Ayler e Shepp, è un mondo ormai sconosciuto ai più, anche perché se frequentano una scuola di jazz mediamente di queste cose non si parla, e queste stesse cose spesso non vengono insegnate. Ma secondo te gli innumerevoli estimatori del trio di Jarrett, che è stato uno dei gruppi più influenti e conosciuti degli ultimi trent’anni, forse che conoscono il percorso che ha portato Gary Peacock a suonare come suona? Hanno mai sentito Peacock con Ayler o con Paul Bley di The Turning Point? O forse sanno che negli anni della sua formazione DeJohnette considerava Rashied Alì la sua ispirazione principale, col quintetto di Coltrane dell’ultimo periodo? A spanne, direi di no. E direi anche che l’interesse che mi può suscitare una musica, un interprete o una “corrente” di pensiero dipendono in larga parte dalla presenza o dall’assenza di alcune di quelle coordinate di base che mi hanno fatto scegliere il jazz come veicolo principale delle possibilità espressive: venivo dal rock, studiavo classica ma ho scelto comunque il jazz per l’energia, il calore, la capacità di condivisione, l’identificazione forte dei musicisti con quello che propongono, e la capacità di questa musica di essere in alcuni momenti espressione e amplificazione di quello che le succede intorno, perché questa è stata per me una delle più grandi lezioni della Black Music, trasferibile peraltro ad altri contesti: l’essere una musica calata nel suo tempo, e in grado di proporne in qualche modo le contraddizioni ed i contrasti. Detto tutto questo, trovo che troppo spesso molti di quelli che vengono considerati i nuovi linguaggi di “riferimento” vadano a parare in un eccesso di complicanza, che alle mie orecchie suona quasi sempre piuttosto artefatta, a scapito di immediatezza e semplicità, che come diceva Brecht è sempre difficile a farsi… Mi mancano spesso profondità e calore, mi manca anche una qualità “poetica” della musica, che è quella che mi ha fatto innamorare del jazz, diciamo che tra Nord Europa moderno e scene avant americane sono poche le circostanze nelle quali sento qualcosa che mi porti via il cuore».
L'aspetto corale, collettivo del fare musica, è un elemento importante del progetto Nexus. Come funziona la condivisione, lo scambio di idee, all'interno del gruppo?
TIZIANO TONONI: «In generale c’è molta autonomia di pensiero, anche perché le naturali differenze tra di noi, parlo di me e di Daniele, fanno si che in modo fisiologico ognuno vada a occupare zone diverse, le riempia e le colori con gli elementi che gli sono propri, e così facendo la composizione del nostro puzzle sonoro avviene quasi sempre da sola. Dopo tutti questi anni di strade percorse insieme – ricordiamo su tutte l’esperienza straordinaria con l’Italian Instabile Orchestra – non c’è un gran bisogno di dire o di sedersi a un tavolo per pianificare. I dioscuri – così ci ha definito qualcuno non ricordo dove né quando, ma già tanti anni fa – si capiscono, e sono spesso telepatici».
DANIELE CAVALLANTI: «Come è noto, da sempre Tiziano ed io contribuiamo, più o meno in parti uguali, alla totale produzione del materiale compositivo, oppure spesso includiamo anche brani di Ornette Coleman o Andrew Cyrille. In ogni caso, come dicevo prima, l’apporto degli altri componenti del gruppo viene ritenuto significativo e ogni musicista è libero, se vuole, di proporre un suo brano o suggerire soluzioni a cui magari noi non avevamo pensato».
Recensendo Experience Nexus per la rivista BlowUp, ho parlato di una "solidità estetica che oggi suona come un fortissimo atto di etica musicale, l'ostinata fiducia in un processo che affonda le radici nel cuore della musica nera e che si svincola dalla nostalgia generazionale per investire di un'eredità anche i cuori e le orecchie che verranno". Per musicisti generazionalmente più lontani da quegli anni però mi sembra che il rapporto con una tradizione creativa sia meno linguistica e casomai più di "spirito", sempre ammesso che nei conservatori e nelle scuole di jazz raccontino loro chi fossero John Carter o Rahsaan Roland Kirk. Che ne pensate?
TIZIANO TONONI: «Mi sembra una bella analisi, da parte di una persona che questa musica non solo la ascolta, ma vivaddio la capisce. E non è così nè sempre, né spesso. Nella nostra lunga avventura abbiamo sempre avuto il “problema” di essere troppo noi stessi, di venire da un background afroamericano – ma di che parliamo, se no? Era il 1980! – traducendolo in italiano, che è sì una lingua europea, ma non abbastanza europea per i devoti di un certo radicalismo che ha preso e prende le distanze da tutto ciò che sa di blues, di swing o di “americano”, ma nel contempo di essere troppo “free” per l’italico dialetto di un jazz più conservativo, improntato al mantenimento di uno status quo musicale che, se era percorribile negli anni Settanta e poteva ancora mantenere una parte della sua carica “eversiva”, nei decenni successivi arrivando fino ad oggi sembra essere diventato un mero esercizio di stile, in qualche modo paragonabile a qualcosa di classico, su cui ancora molti misurano il tasso di "jazzisticità" di questo o quel musicista».
«Ecco perché si impone, da parte di chi come me ha avuto la fortuna di entrare in contatto con molte delle fonti originali, il compito della testimonianza della storia, e dell’idea di passare alle nuove generazioni un testimone di cui i giovani musicisti sono quasi sempre inconsapevoli. E qui potremmo, ma mi astengo dall’entrare nel merito, aprire un grande capitolo sull’utilità del web, dell’informazione in tempo reale, del bombardamento mediatico e quant’altro. Sta di fatto che nonostante tutto, e tutti i mezzi a disposizione, la mia esperienza di molti anni ormai di insegnamento mi dice che oggi i ragazzi sanno infinitamente meno di quanto non sapessi io al loro posto, e alla loro età, è come se la passione non fosse più il motore della curiosità, e quindi delle scoperte, che da una conducono ad un’altra, in una catena virtuosa praticamente infinita… c’è troppo, c’è tutto, o quasi, e tutto può coincidere con niente».
«Tornando alla scelta dei musicisti con cui suoniamo o abbiamo suonato in questi anni, certamente la condivisione di uno ”spirito” è più importante di quella di un linguaggio sulla carta consono o predefinito, se condividi lo spirito di una musica sarai sempre in grado di adeguare la tua cifra stilistica al contesto nel quale sei chiamato ad esprimerti. E no, nelle scuole non si insegna né Rahsaan, né John Carter, se no non staremmo messi come siamo, io lo faccio sempre nelle mie lezioni sul jazz, ma questa è un’altra storia…».
DANIELE CAVALLANTI: «Si deve partire proprio da questo presupposto, ovvero “le radici” che si sono sviluppate dentro di noi nel corso del tempo. Noi abbiamo avuto la fortuna di vivere un’epoca musicalmente piena di vita, che ha radicato in noi non solo emozioni, che abbiamo riportato nei nostri brani, ma anche la consapevolezza di quanto ci stava crescendo attorno e della forza evolutiva in esso contenuta. Quello che sia io che Tiziano cerchiamo di fare in ogni nostra azione, considerazione o creazione, è esattamente la stessa cosa: cerchiamo di favorire, di “tramandare”, un’esperienza che ci ha strutturati da dentro. Purtroppo qui tocchiamo un punto dolente perché, a parte alcuni, oggi i musicisti più giovani faticano ad avere una vicinanza con quel tipo di tradizione creativa, di linguaggio, e forse tanto meno, di “spirito”, perché non sono più disponibili quelle libere fruizioni che abbiamo vissuto noi quotidianamente; è sempre più difficile trovare spazi, sia fisici che mentali, dove essere esposti ad eventi “formativi”. Per quanto riguarda poi conservatori e scuole di jazz, nel nostro paese siamo ancorati a didattiche obsolete e difficilmente aperte alla creatività».
Quasi 40 anni di Nexus: se doveste scegliere un disco, uno solo (a testa) da salvare dal diluvio, tra quelli della vostra discografia, quale scegliereste e perché?
DANIELE CAVALLANTI: «Anche questa è una domanda difficile! Comunque direi Seize the Time! con Nexus Orchestra: un doppio CD del 2000/2001 in cui abbiamo riunito quasi tutti i musicisti che all’epoca avevano collaborato con noi nell’arco di 20 anni, tra cui, in particolare, Roswell Rudd».
TIZIANO TONONI: «Già che Daniele mi ha scippato Seize The Time! – e sorvoliamo sulla primogenitura del titolo, sempre a proposito di quello che si sa o che non si sa della storia – direi il nostro primo LP, quell’Open Mouth Blues dell’83 che suona ancora sorprendentemente fresco e a modo suo attuale alle mie orecchie. Eravamo Daniele, Luca Bonvini – che nel frattempo ci ha lasciato – al trombone, Pino Minafra alla tromba, Paolino Dalla Porta al contrabbasso e io. Ricordo come fosse adesso la sensazione di pace e di appagamento, come dopo aver sostenuto un esame di maturità, che mi pervadeva, mentre in un sabato sera di inizio estate me ne tornavo a casa, da solo con i miei pensieri leggeri e i miei pali della pioggia, dallo studio Barigozzi… era tutto nuovo, eravamo i primi della nostra generazione a registrare in quello che allora era “lo” studio per il jazz a Milano, avevo 26 anni, mi sembrava un sogno. Quel disco contiene molti elementi portanti del modo di intendere e fare la musica che avremmo poi coltivato e sviluppato negli anni a venire, mi piace ancora molto».
A proposito di Seize The Time!, nei giorni in cui facciamo questa chiacchierata è fresca la triste notizia della scomparsa di Roswell Rudd, che con voi ha collaborato intensamente: vi va di condividere un piccolo ricordo del trombonista?
TIZIANO TONONI: «Con Roswell è stato tutto facile, musicalmente. Era il 2001, e abbiamo celebrato i primi vent’anni di Nexus con due dischi orchestrali, uno di originali, l’altro avendo io messo mano alla suite di Rudd denominata “Numatik Swing Band”. Avevamo coinvolto praticamente tutti coloro che erano passati dall’esperienza del gruppo fino ad allora, ed era stata un’operazione titanica, architettata con Peppo Spagnoli e Splasc(h) da una parte, e Lorenzo Pallini da Firenze dall’altra. Dopo mille difficoltà e intoppi di ogni tipo, ecco che finalmente le cose si sbloccano, e arriva Roswell. Da subito mi aveva colpito la sua disponibilità a stare nell’orchestra, a essere uno di noi, e a calarsi con una naturalezza estrema nella nostra musica. Mentre registravamo, lui stava proprio di fronte a me, e quando ha cominciato il suo solo su un mio brano, ricordo mentre lo accompagnavo di essere stato letteralmente investito dal suo suono, quel suono che tanto mi aveva colpito ed emozionato nella Liberation Music Orchestra con “We Shall Overcome”, o in The Third World di Gato Barbieri, e mi sono sentito felice come un bambino. Grande Roz, suonare e registrare insieme è stato un sogno che si è avverato, e come mi avevi scritto a margine degli appunti per i titoli di "Numatik Swing Band"… see you on the Moon!».
DANIELE CAVALLANTI: «Durante entrambe quelle sessioni di registrazione Roswell era ospite a casa mia. Un uomo e un ospite buono, garbato, gentile e simpaticissimo; mia moglie lo adorava. In studio, un gigante, un musicista grandissimo, un suono killer, vederlo suonare a un metro da me, praticamente danzando durante i suoi soli, è stata un’esperienza indimenticabile! È una grave perdita per tutti noi».
La città di Milano in cui vivete e operate da sempre sembra ultimamente molto più vivace jazzisticamente rispetto a qualche anno fa, cosa ne pensate e come vi muovete sulla scena locale?
TIZIANO TONONI: «Per quel che mi riguarda, non mi pare proprio che la situazione sia così migliorata, gli ambiti in cui suonare mi sembrano poco attenti a quello che c’è in giro, spesso l’unico criterio per valutare una performance è se c’è o meno gente, e quanta, che paga un ingresso o una consumazione. È raro trovare persone che abbiano passione per quello che propongono, e i compensi sono irrisori. Se aggiungi a tutto questo che non c’è nemmeno qualche tipo di “continuità” dell’ingaggio, ma di che parliamo? Mi sembra un quadro abbastanza desolante. Diverso è il discorso per le associazioni culturali o le fondazioni, che magari lavorano con caparbietà da anni, a dispetto delle difficoltà sempre maggiori, per continuare a fare cultura sul territorio, cercando di lasciare dei sedimenti buoni che nel tempo possano dare dei frutti, dovrebbero essere più supportate ed incentivate dal punto di vista economico, definendo una volta per tutte che la cultura non è un bene voluttuario di cui si può fare a meno, è linfa buona, sangue e muscoli per le nuove generazioni… per non finire, come è stato in questi ultimi anni per alcune manifestazioni musicali anche con una grande storia alle spalle, in un vortice di puro volontariato, che in alcuni casi progressivamente si affievolisce al punto di scomparire… Ho avuto la fortuna di vivere il boom dei club del jazz a Milano per tutti gli anni Ottanta fino alla metà circa dei Novanta, e da lì in poi la parabola è stata di un declino lento ma inesorabile, oggi i giovani musicisti che devono farsi le ossa faticano davvero tanto a trovare visibilità, condizioni dignitose, e persino luoghi minimamente adatti a proporre della musica che necessiterebbe in teoria di condizioni minime di ascolto. Io non mi sono mai arreso, spero non lo facciano neanche loro».
«Ho avuto la fortuna di vivere il boom dei club del jazz a Milano per tutti gli anni Ottanta fino alla metà circa dei Novanta, e da lì in poi la parabola è stata di un declino lento ma inesorabile».
DANIELE CAVALLANTI: «Ma sì, forse ultimamente Milano si è un po' risvegliata da un lungo periodo di letargo e stagnazione a tutti i livelli, però lo scenario attuale è comunque abbastanza “addomesticato” e poco promettente. Ci sono dei piccoli locali dove, volendo, è possibile suonare, anche se al confronto la Milano degli anni Ottanta e primi Novanta sembrava la 52nd Street di New York dei Cinquanta. Ogni tanto suono in qualcuno di questi locali, o altri fuori Milano, con il mio quartetto A World of Sound con Francesco Chiapperini, Gianluca Alberti al contrabbasso e Toni Boselli alla batteria. È un quartetto agile, basato tutto a Milano che ci permette di organizzare anche date in piccoli club. Più o meno una volta all’anno io e Tiziano suoniamo al Blue Note con Black Hole Quartet del chitarrista Walter Donatiello».
Tiziano, il 2017 ha portato un disco in solo (ricco di omaggi a tuoi maestri dichiarati come Andrew Cyrille, Ed Blackwell o Bob Moses) e un duo con la collega di strumento Susie Ibarra. In che direzione si muove il tuo lavoro percussionistico attualmente?
TIZIANO TONONI: «Il lavoro in ambito “percussivo” puro e semplice è un aspetto del mio essere musicista che mi ha sempre affascinato. Ricordo di essere stato molto colpito la prima volta che ascoltai Max Roach dal vivo alla Statale di Milano nel ’76, dalla sua autorevolezza, dalla evidente capacità di “dirigere” la propria musica, dai suoi excursus solistici, così come ebbi una vera rivelazione quando l’anno successivo acquistai in modo “casuale” il disco in duo di Cyrille e Milford Graves Dialogue of the Drums… Qui andavamo avanti per tornare indietro, due degli esponenti di punta della cosidetta avanguardia evocavano nel loro agire in musica un’ancestralità antica, un retaggio africano e lontano, che si è poi fatto strada nei linguaggi che la Black Music ci ha regalato, fino a trasformarsi nel linguaggio ritmico del blues e del jazz in tutte le loro forme ed evoluzioni. Nel mio disco solo ho cercato di rielaborare liberamente la mia capacità di essere un improvvisatore, che si confronta con l’idea della costruzione e della strutturazione in tempo reale, lavorando più su stimoli e suggestioni del momento, che non su veri e propri frammenti o brani pre-composti. Pensandoci a posteriori, rischiare muovendosi su un crinale sottile, che non sai se ti porterà da qualche parte, né come ci arriverai, è, in fondo, la parte più stimolante del lavoro su se stessi, fa uscire di te gli aspetti più autenticamente connaturati a ciò che sei, e mostra una parte della tua “anima”. Il disco si chiama non a caso Portraits Of My Soul…».
«Nella mia storia musicale non c’è mai stato niente di realmente casuale, mi è sempre sembrato che le cose venissero a me nel momento in cui ero pronto ad accoglierle, si trattasse di un disco, di un concerto o di un incontro. Come vedi l’unitarietà della storia del jazz mi si è palesata praticamente da subito, leggere libri come Blues People o Free Jazz/Black Power o incontrare, conoscere e poi studiare con Andrew Cyrille, o con Bob Moses, non ha fatto che confermare queste direttive, anche per quanto riguarda i miei strumenti in senso stretto. Lo studio poi della percussione classica con David Searcy, e grazie a lui la scoperta del Novecento percussivo, da Varèse a Cage, da Chavez a Ginastera a Stockausen, Hovannes, Cowell e Xenakis, ha aperto i miei orizzonti e le mie orecchie, che in fondo dovrebbero essere il vero strumento di ogni musicista, e si è così creato un grande “me” percussivo, che tutte queste cose ha cercato di tenere in equilibrio da più di trent’anni a questa parte. Ho cominciato con il trio Moon On The Water con Searcy e Jonathan Scully, abbiamo collaborato con personaggi così diversi tra loro come Stewart Copeland e Pierre Favre, ho continuato con Alessandro “Pacho” Rossi, con cui c’è in atto una collaborazione che finora ha prodotto un cd di cui vado molto orgoglioso, Is This Music? per la LongSong di Fabrizio Perissinotto, in cui è particolarmente evidente il connubio tra culture e approcci differenti, e recentemente ho incontrato Susie Ibarra, con la quale ho suonato in duo, trovando una sintonia che difficilmente si sperimenta a certi livelli la prima volta che si suona insieme. È possibile che il concerto di Sant'Anna Arresi della scorsa estate venga pubblicato, e ci sono buoni auspici per continuare a collaborare anche quest’anno. Le coordinate del lavoro che facciamo insieme spaziano dalle forme più ispirate a diverse tradizioni – lei è filippina di origine, americana di cultura e ha studiato con Milford Graves e Dennis Charles – all’aspetto più estemporaneo, totalmente improvvisato, per poi rivolgersi alla ritualità della musica attraverso la sacralità dei gong, di cui entrambi siamo appassionati cultori».
E come hai lavorato al disco sulla Allman Brothers Band?
TIZIANO TONONI: «Mah, penso con tutto l’amore e l’affetto viscerale che provo per la loro musica da quando la scoprii al liceo, sarà stato il ’72, ed è stata una di quelle musiche colonne sonore della mia vita. E poi le rivisitazioni sono la specialità della casa… Non so come né perché, ma entrare nelle pieghe delle musiche che mi hanno così tanto colpito ed influenzato mi è sempre venuto istintivamente facile, sento di avere un debito con ognuno dei personaggi che ho ripreso e “modificato” – Don Cherry, Ayler, Coltrane, Rahsaan Roland Kirk, Ornette Coleman. Restituirne la musica filtrandola attraverso quello che sono diventato anche grazie a ciascuno di loro, è stato ed è il mio modo di dire loro grazie, e di proseguire nel cammino. Certo in questo caso l’operazione ha destato stupore in più che qualcuno, visto l’oggetto della mia attenzione, ma anche qui, in fondo si tratta di blues o territori limitrofi nella gran parte dei casi, quindi trovo che comunque ci fosse una evidente “continuità concettuale”, per dirla alla Zappa, col mio vissuto e con le musiche di cui mi ero occupato fino a quel momento. Quello che mi è stato chiaro da subito è che avrei dovuto allontanarmi dal suono Allman, assolutamente. Da lì in poi la ricetta è stata relativamente semplice: via le chitarre, dentro due fiati, violino, fisarmonica e una voce femminile, unita a una compagine di personaggi dalle spiccate personalità, che per mia scelta non dovevano necessariamente nemmeno conoscere gli originali, volevo mantenere un approccio generale particolarmente disincantato e “stranito” rispetto agli originali. E così è stato. No tribute band, no al rifacimento pedissequo di brani già straordinari, ma l’infusione nella musica dell’ABB, di Sun Ra, Mingus, Coltrane e Ayler, così, per divertirsi e stupire, e per dimostrare che l’idea che Ornette aveva della propria musica – spero che possa servire ad altri per dire delle cose loro – è viva ed esportabile, persino al rock-blues di una band di capelloni sudisti della Georgia, forse primo esempio di gruppo interrazziale nel profondo Sud degli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta».
Daniele, invece il lavoro con i tuoi gruppi come procede?
DANIELE CAVALLANTI: «Ho appena citato il mio A World of Sound Quartet. Il gruppo è attivo dal 2013 circa, con la stessa ritmica e Gianluca Elia all’altro tenore, sostituito poi da Francesco Chiapperini nel 2015. Come dicevo, è un gruppo agile, quindi riusciamo ad avere sempre una media di due o tre date al mese, tra Milano e hinterland, a volte ci spingiamo anche “oltre confine” fino a Torino, Novara, Bergamo, Brescia, Cremona… e questo ci offre una certa continuità lavorativa che permette al gruppo di suonare e crescere. A marzo abbiamo una serie di 3/4 date, dopo di che penso che andremo in studio per registrare il nostro secondo disco».
Giochino finale: ognuno di voi scelga un disco storico di jazz creativo, un disco di jazz italiano non vostro e un disco americano/europeo uscito negli ultimi dieci anni non vostro da suggerire ai nostri lettori
TIZIANO TONONI: «Nell’ordine, Spiritual Unity del trio di Albert Ayler, Viaggio al centro del violino di Emanuele Parrini, e la trilogia Coin Coin di Matana Roberts: è un’artista con cui mi piacerebbe suonare in un prossimo futuro».
DANIELE CAVALLANTI: «Per rimanere in tema di integrità, come disco storico, scelto fra i moltissimi, io indicherei A Love Supreme di Coltrane. Come disco americano/europeo direi Sleeper del quartetto europeo di Keith Jarrett; anche se la registrazione, come sai, è un live inedito del ’79, è uscito solo qualche anno fa, quindi lo inserirei tra i miei suggerimenti. Tra l’altro, mi pare sia l’ultimo concerto di questo meraviglioso gruppo. Infine, come disco italiano, vorrei citare Dandelions on Fire di Simone Massaron, con Carla Bozulich, su LongSong Records, non è un disco propriamente di jazz ma è sicuramente musica creativa».