La canzone delle nuove americane: Bedouine e Jay Som

I dischi di Bedouine e Jay Som, cantautrici statunitensi figlie dell’immigrazione

Bedouine (foto Polly Antonia Barrowman)
Bedouine (foto Polly Antonia Barrowman)
Articolo
pop

Riordinando a fine anno i dischi accumulati nell’arco dei 12 mesi, oppure – come accade ultimamente – spulciando tra i file digitali ammassati in un angolino del desktop sul computer, può capitare d’imbattersi in opere passate inosservate o ascoltate in maniera distratta, senza dar loro l’attenzione che meritavano. Tra queste, nell’occasione, sono riaffiorati i lavori di due artiste statunitensi stilisticamente distanti ma affini in termini biografici. Potremmo definirle cantautrici da Green Card.

Bedouine

Segnata da quel documento, che i genitori – siriani di etnia armena emigrati in Arabia Saudita – ottennero vincendo la lotteria invisa a Trump, è la storia della trentatrenne Azniv Korkejian, in arte Bedouine. Cresciuta professionalmente a Los Angeles come montatrice di dialoghi e musiche per il cinema (ultimo impegno è stato la fortunata commedia The Big Sick), ha coltivato nel tempo il proprio talento espressivo, trovando infine modo di valorizzarlo per mezzo del team Spacebomb, organizzato a Richmond da Matthew E. White. Con quel marchio lo scorso giugno ha pubblicato l’album d’esordio, intestato allo pseudonimo e dominato dalla sua voce calda e confidenziale: un elegante esercizio di folk vecchio stile – simile a quanto fatto tre anni fa dalla compagna d’etichetta Natalie Prass – impercettibilmente screziato da sfumature esotiche.

Che abbia vocazione cosmopolita, del resto, è chiaro dalla citazione di Italo Calvino, da Le città invisibili, posta sul web in apertura del proprio profilo: “Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti”.

Jay Som

Fa base in California, a Oakland, pure la ventitreenne Melinda Duterte, le cui generalità denunciano l’ascendenza filippina dei genitori, sbarcati in America prima che lei nascesse. Dopo aver rinunciato a studiare tromba al conservatorio, com’era stata consigliata a fare, si è dedicata alla creazione di – parole sue – “musica da cuffia” ribattezzandosi Jay Som. Canzoncine concepite e registrate in cameretta: così erano le nove postate nel 2015 su Bandcamp. Tanto è bastato a convincere i discografici indipendenti di Polyvinyl a ingaggiarla, tramutando inizialmente quei provini in oggetto concreto (Turn Into) e dando poi corpo al seguito, Everybody Works, realizzato anch’esso in ambiente domestico e tuttavia maggiormente complesso nell’orchestrazione. Una raccolta di materiale piuttosto eterogeneo, dove a irresistibili guizzi pop ("The Bus Song" e "One More Time, Please", in particolare) si alternano numeri indie rock di buona stoffa e ballate malinconiche e sognanti. A conferire coerenza all’insieme è la scrittura dell’autrice, al tempo stesso freschissima eppure già matura.

 

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