Uno ha un bel sapere che quella di Re Lear è una tragedia; che è Shakespeare, che è una delle tragedie più totali e implacabili che il teatro abbia mai concepito. Una carneficina elisabettiana, un non tirare mai il fiato neanche un minuto, un rimanere attoniti di orrore in orrore, di malvagità in malvagità, di ineluttabilità in ineluttabilità. Uno ha un bel sapere che Aribert Reimann, che ha avuto il fegato di metterlo in musica quando Dietrich Fischer-Dieskau glielo ha chiesto nel 1975, ha scritto una musica dura, terribile, barbarica, che definire "dodecafonica" è banale e insufficiente. L'inaugurazione della nuova stagione del Teatro Regio di Torino, nell'allestimento di questo titanico macigno della sofferenza melodrammatica, ha scelto un profilo alto, aspro, solenne. La cifra teatrale di questo "Lear", affidata alla regia di Luca Ronconi, alle scene di Margherita Palli e ai costumi di Vera Marzot, era di grandiosa cupezza: un pendio sensibile, un dominare del grigio un po' "Ludwig" e un po' "Wozzeck", del ruggine, alte torri scheletriche di praticabili di fabbrica abbandonata; la landa in cui Lear si aggira nel primo disperarsi del suo stizzoso narcisismo di potente spatentato si prepara con un lento, inesorabile sollevarsi di un immenso portale, che caccia fuori Lear dal consorzio di belve della sua corte, e lo lascia sotto finissima pioggia cinematografica, minuta inzuppante umiliante. Quando per un secondo l'orchestra percussiva, strillante d'ottoni rabbiosi, diretta con un'energia spaventosa da Arthur Fagen, tace, tace sfinita, noi sentiamo la pioggerellina del dolore cadere fina fina sulle spalle del vecchio (Monte Jaffe sin dalla prima, che sostituiva un indisposto Wicus Slabbert). Non capita più molto spesso di stare dentro un teatro così perfetto, in cui ogni luce, ed ogni gesto, è commisurato al massimo della sua essenzialità drammatica. Non capita spesso di sentirsi straziati, lancinati dal dolore senza osare fuggire (la tivù almeno si può spegnere!). Anche la musica di Reimann (che era presente in sala, e che alla fine è venuto a prendere gli applausi sfiniti degli spettatori rimasti ad affrontare questa via crucis tragica senza catarsi), in alcuni momenti (il quietarsi della tempesta, lo struggente amore filiale, quasi incestuoso di Edgar per l'ingrato Gloucester) mostrava di sapere, se avesse voluto, distendersi in armoniche tristezze, in commoventi mitezze. In un cast compatto, riuscito, ciascuno meriterebbe il suo rilievo. Ma tra tutti, per suo talento espressivo, o per sensualità adulta complessa e maturissima di Ronconi, giganteggiava l'Edgar del contralto Marco Lazzara: la sua voce di uomo isterizzato in donna, il suo scarno petto nudo nel freddo, la sua inossidabile dignità, la sua disperazione, superavano anche la sempre aspra linea di canto della buona Cordelia di Valentina Valente. Se Lear può sembrare un Falstaff un po' più distrutto (Verdi ci aveva pensato, a Lear, si sa), questo Edgar turba, lancina, non dà tregua, con quel suo canto ambiguo, androgino, maschile e femminile, yin e yang, summa di ogni possibile cantare la disperazione contemporanea.
Note: nuovo all. Prima esecuzione italiana. Versione in lingua inglese di Desmond Clayton
Interpreti: Jaffe/Slabbert, Silvestrelli, Mosley, Bonfatti, Di Cesare, Schmeckenbecher, Lazzara, Lyon, Zschau, von der Burg, Valente/Colombini, Fontana, La Guardia
Regia: Luca Ronconi
Scene: Margherita Palli
Costumi: Vera Marzot
Orchestra: Orchestra del Teatro Regio
Direttore: Arthur Fagen
Coro: Coro del Teatro Regio
Maestro Coro: Bruno Casoni