Orchestre a Bucarest

Il Festival Enescu

Recensione
classica
Il Festival Enescu di Bucarest è insieme a Lucerna la più splendente vetrina internazionale delle migliori orchestre del pianeta. Vi si può trovare molto altro - solisti, gruppi da camera, ensemble di musica antica, rassegne di musica contemporanea - ma per ora concentriamoci sulle orchestre. Durante l'ultimo weekend del festival ne abbiamo ascoltate due, quella dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia e quella del Concertgebouw di Amsterdam, entrambe impegnate in una Sinfonia di Mahler. L'orchestra romana era impegnata nella Sinfonia n. 2 "Resurrezione", naturalmente con Antonio Pappano sul podio e con la partecipazione del coro preparato da Ciro Visco. Il direttore italo-anglo-americano è arrivato a Mahler relativamente tardi e vi ha travasato la sua insopprimibile propensione a una teatralità di potente drammaticità, che indubbiamente è uno degli aspetti più evidenti della musica di Mahler. Si può immaginare come l'attacco della Sinfonia, con il tremolo di violini e viole in fortissimo, dalla sonorità scabra e tagliente, su cui si inseriscono le tempestose scale di violoncelli e contrabbassi, diventi qualcosa di apocalittico. Ma è tutta la Totenfeier (Cerimonia funebre) di questo vastissimo primo movimento raggiunge con Pappano una carica tragica che annichilisce. Gli archi dell'orchestra romana sono superbi, mentre - ad onor del vero - gli strumenti a fiato restano un passo indietro, ma forse quest'impressione dipende dal nostro posto in terza fila, troppo sotto agli oltre centocinquanta esecutori schierati sul palco. Al tragico do minore del primo movimento segue il luminoso la bemolle maggiore del secondo: Pappano trova ora colori teneri e delicati, esaltando la strumentazione trasparente e rarefatta di Mahler, ma qui comincia ad evidenziarsi quello che può essere un limite della sua interpretazione, che sembra fermarsi al primo livello di questa musica, rischiando di lasciarsi sfuggire gli indizi e i presagi di un'oscura inquietudine che stanno al di sotto dell'apparente serenità e rivelano come questa non sia una felicità concreta e tangibile ma la rievocazione nostalgica di una felicità perduta e forse neanche mai esistita. Anche nei due movimenti liederistici successivi - il terzo per sola orchestra si basa su La predica ai pesci di Sant'Antonio da Padova, trasformato da Mahler in una specie di ronda infernale, mentre il quarto per contralto e orchestra inizia citando O rosellina rossa e prosegue con Luce primordiale - si ha la sensazione che Pappano dia troppa fiducia al primo strato di questa musica e non ne colga interamente l'ambiguità. Ma col gesto molto teatrale che apre il quinto e ultimo movimento Pappano è nuovamente a casa sua e il suo temperamento drammatico e comunicativo esalta l'alta tensione espressiva del finale. A metà di questo movimento entra finalmente anche il coro dell'Accademia di Santa Cecilia, trovando un colore letteralmente prodigioso, immateriale eppure tutt'altro che celestiale e paradisiaco, anzi sconfinatamente cupo e doloroso, con le voci acute dei soprano che diventano un tutt'uno con quelle cupe e profonde dei violoncelli e dei contrabbassi che le sostengono: come ciò sia possibile bisognerebbe chiederlo al maestro del coro Ciro Visco. Ottime anche le voci soliste di Rachel Willis-Sorensen e Okka von der Damerau.

La Royal Concertgebouw Orchestra e Daniele Gatti presentavano invece la Sinfonia n. 4 di Mahler, che è agli antipodi della n. 2 per la chiarezza e la limpidezza dell'orchestrazione, ma che rivela anch'essa un doppio (e anche un triplo, un quadruplo e così via all'infinito) fondo: basti pensare come il sereno lied per una voce di soprano leggero (la bravisisma Chen Reiss) abbinata alle sonorità infantili dei campanelli alluda a bambini che muoiono di fame. L'orchestra olandese aveva iniziato con la Sinfonia n. 82 "L'orso" di Haydn, eseguita bene, molto bene, eppure leggermente deludente rispetto a quel che ci si poteva legittimamente attendere da una delle migliori orchestre del mondo, che ha offerto un'interpretazione un po' superata del classicismo inteso come nitore ed equilibrio, ma senza che il nitore fosse assoluto, perché alcuni attacchi - pur non potendosi definire sbagliati, dio ne guardi! - non erano perfettamente sincroni, ad essere proprio pignoli. Ma quando sono passati a Mahler gli olandesi sono stati incommensurabili. Data per scontata la perfezione tecnica, resterebbe da dire dell'infinità di colori e di sfumature che lasciavano scorgere un'intimità con la musica di Mahler che forse nessun'altra orchestra può vantare, nemmeno i Wiener. La storia può spiegare questo prodigio, almeno in parte: infatti Mahler stesso ha diretto molte volte quest'orchestra - più di cent'anni fa, è vero - e le vecchie parti d'orchestra che riportano a matita le sue minuziose indicazioni erano ancora in uso fino a qualche decennio fa. Daniele Gatti ha voluto per Mahler un'orchestra non molto più grande di quella di Haydn - almeno per quanto riguarda gli archi, perché il numero dei fiati ovviamente non è modificabile - come a voler dimostrare che Mahler è presente per intero con tutte le sue complessità, contraddizioni ed ambiguità anche in una sinfonia miniaturizzata rispetto alle altre quanto a durata ed organico, smentendo così che l'ipertrofismo sia la componente caratterizzante ed imprescindibile del mondo mahleriano. Alla fine dei concerti delle due orchestre il pubblico ha espresso la sua approvazione in modo diverso: applausi entusiastici e ritmati per Pappano e gli italiani, applausi più composti ma più prolungati per Gatti e gli olandesi. Entrambe le orchestre, come tutte quelle ospiti del Festival Enescu, hanno dato due concerti a Bucarest. Abbiamo perso il primo dell'orchestra romana (Concerto n. 1 di Ciajkovskij con Beatrice Rana al pianoforte e Sinfonia n. 3 di Enescu) mentre abbiamo ascoltato il secondo del Concertgebouw, iniziato con l'ouverture dell'Euryanthe di Weber, che vedeva i membri dell'orchestra olandese mescolati a quelli dell'Orchestra Giovanile Nazionale della Romania: un'iniziativa simpatica, che senza dubbio ha regalato un'esperienza preziosa ai giovani strumentisti. Si proeseguiva con il Capriccio romeno di Enescu per violino e orchestra, rimasto incompiuto e completato da Cornel Taranu a partire dagli schizzi del compositore. Il violino solista (la bravissima spalla dell'orchestra Liviu Prunaru) ha alcuni momenti affascinanti, che evocano con nostalgia la musica popolare, ma la parte alquanto scarna dell'orchestra rivela che Enescu lasciò questa musica incompiuta: nel complesso tale materiale musicale non è abbastanza sostanzioso per reggere i quattro movimenti e i circa quaranta minuti di durata di questo Capriccio. Concludeva il concerto la Sinfonia n. 5 di Prokof'ev, dove Gatti andava a caccia dei momenti di leggerezza, puntando sulla cantabilità, sulla flessibilità del ritmo e sulla varietà timbrica piuttosto che sulla soggiogante potenza sonora e l'inflessibile meccanicità esaltate da altri interpreti (Valery Gergiev, per esempio). Un'esecuzione assolutamente impeccabile, in cui rifulgeva il bel suono dell'orchestra olandese. Chissà se questo gusto per l'edonismo della melodia e del timbro sia un'acquisizione recente, frutto di una certa infiltrazione del gusto italiano in un'orchestra che prima guardava soprattutto alla Germania: sono infatti italiani due dei suoi tre ultimi direttori musicali, qualche italiano siede ora in orchestra (tra gli altri il primo clarinetto Calogero Palermo e la prima tromba Omar Tommasoni, provenienti rispettivamente dalle orchestre dell'Opera di Roma e di Santa Cecilia) e i contrabbassi usano l'arco italiano "alla Bottesini", che consente un suono più controllato e dolce. Probabilmente non sono fatti casuali, perché molte orchestre tedesche e dei dintorni stanno cercando non da oggi di prendere quel che di buono c'è nella tradizione strumentale italiana, per mitigare una certa loro pesantezza teutonica.

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