Orchestre a Bucarest
Il Festival Enescu
La Royal Concertgebouw Orchestra e Daniele Gatti presentavano invece la Sinfonia n. 4 di Mahler, che è agli antipodi della n. 2 per la chiarezza e la limpidezza dell'orchestrazione, ma che rivela anch'essa un doppio (e anche un triplo, un quadruplo e così via all'infinito) fondo: basti pensare come il sereno lied per una voce di soprano leggero (la bravisisma Chen Reiss) abbinata alle sonorità infantili dei campanelli alluda a bambini che muoiono di fame. L'orchestra olandese aveva iniziato con la Sinfonia n. 82 "L'orso" di Haydn, eseguita bene, molto bene, eppure leggermente deludente rispetto a quel che ci si poteva legittimamente attendere da una delle migliori orchestre del mondo, che ha offerto un'interpretazione un po' superata del classicismo inteso come nitore ed equilibrio, ma senza che il nitore fosse assoluto, perché alcuni attacchi - pur non potendosi definire sbagliati, dio ne guardi! - non erano perfettamente sincroni, ad essere proprio pignoli. Ma quando sono passati a Mahler gli olandesi sono stati incommensurabili. Data per scontata la perfezione tecnica, resterebbe da dire dell'infinità di colori e di sfumature che lasciavano scorgere un'intimità con la musica di Mahler che forse nessun'altra orchestra può vantare, nemmeno i Wiener. La storia può spiegare questo prodigio, almeno in parte: infatti Mahler stesso ha diretto molte volte quest'orchestra - più di cent'anni fa, è vero - e le vecchie parti d'orchestra che riportano a matita le sue minuziose indicazioni erano ancora in uso fino a qualche decennio fa. Daniele Gatti ha voluto per Mahler un'orchestra non molto più grande di quella di Haydn - almeno per quanto riguarda gli archi, perché il numero dei fiati ovviamente non è modificabile - come a voler dimostrare che Mahler è presente per intero con tutte le sue complessità, contraddizioni ed ambiguità anche in una sinfonia miniaturizzata rispetto alle altre quanto a durata ed organico, smentendo così che l'ipertrofismo sia la componente caratterizzante ed imprescindibile del mondo mahleriano. Alla fine dei concerti delle due orchestre il pubblico ha espresso la sua approvazione in modo diverso: applausi entusiastici e ritmati per Pappano e gli italiani, applausi più composti ma più prolungati per Gatti e gli olandesi. Entrambe le orchestre, come tutte quelle ospiti del Festival Enescu, hanno dato due concerti a Bucarest. Abbiamo perso il primo dell'orchestra romana (Concerto n. 1 di Ciajkovskij con Beatrice Rana al pianoforte e Sinfonia n. 3 di Enescu) mentre abbiamo ascoltato il secondo del Concertgebouw, iniziato con l'ouverture dell'Euryanthe di Weber, che vedeva i membri dell'orchestra olandese mescolati a quelli dell'Orchestra Giovanile Nazionale della Romania: un'iniziativa simpatica, che senza dubbio ha regalato un'esperienza preziosa ai giovani strumentisti. Si proeseguiva con il Capriccio romeno di Enescu per violino e orchestra, rimasto incompiuto e completato da Cornel Taranu a partire dagli schizzi del compositore. Il violino solista (la bravissima spalla dell'orchestra Liviu Prunaru) ha alcuni momenti affascinanti, che evocano con nostalgia la musica popolare, ma la parte alquanto scarna dell'orchestra rivela che Enescu lasciò questa musica incompiuta: nel complesso tale materiale musicale non è abbastanza sostanzioso per reggere i quattro movimenti e i circa quaranta minuti di durata di questo Capriccio. Concludeva il concerto la Sinfonia n. 5 di Prokof'ev, dove Gatti andava a caccia dei momenti di leggerezza, puntando sulla cantabilità, sulla flessibilità del ritmo e sulla varietà timbrica piuttosto che sulla soggiogante potenza sonora e l'inflessibile meccanicità esaltate da altri interpreti (Valery Gergiev, per esempio). Un'esecuzione assolutamente impeccabile, in cui rifulgeva il bel suono dell'orchestra olandese. Chissà se questo gusto per l'edonismo della melodia e del timbro sia un'acquisizione recente, frutto di una certa infiltrazione del gusto italiano in un'orchestra che prima guardava soprattutto alla Germania: sono infatti italiani due dei suoi tre ultimi direttori musicali, qualche italiano siede ora in orchestra (tra gli altri il primo clarinetto Calogero Palermo e la prima tromba Omar Tommasoni, provenienti rispettivamente dalle orchestre dell'Opera di Roma e di Santa Cecilia) e i contrabbassi usano l'arco italiano "alla Bottesini", che consente un suono più controllato e dolce. Probabilmente non sono fatti casuali, perché molte orchestre tedesche e dei dintorni stanno cercando non da oggi di prendere quel che di buono c'è nella tradizione strumentale italiana, per mitigare una certa loro pesantezza teutonica.
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