Le Siège de Corinthe come Rossini l'ha scritto
Il ROF inaugurato con la prima esecuzione basata sull'edizione critica
Il Rossini Opera Festival ha quasi portato a termine una missione che si era dato fin dall'inizio, ovvero eseguire tutte le opere di Rossini sulla base delle edizioni critiche, realizzate parallelamente dalla Fondazione Rossini. Mancava ancora – oltre ad alcune opere minori – Le Siège de Corinthe, che è stato presentato come spettacolo inaugurale di questa edizione del festival, la trentottesima. Che questa edizione critica sia stata una delle ultime a essere realizzata è un chiaro indizio di quanto fosse intricata la situazione delle fonti di quest'opera.
Per avere un'idea di quello che prima si eseguiva col titolo italianizzato di Assedio di Corinto, si pensi alle rappresentazioni scaligere del 1969 con Schippers, Sills e Horne, che, come testimoniano sia la registrazione dal vivo che l'incisione realizzata a New York qualche anno dopo, fu un puzzle messo insieme con pezzi del Maometto II napoletano del 1820 e veneziano del 1822, e del Siège de Corinthe parigino del 1826, utilizzando anche inserti di altre opere di Rossini stesso e di Pacini.
Al ROF Le Siège de Corinthe era già stato eseguito nel 2006, ma, non essendo allora disponibile l'edizione critica, ci si era basati sulla partitura stampata a Parigi pochi mesi dopo la prima assoluta del 1826, che non è completamente affidabile, ma è tuttavia molto migliore dei centoni che si rappresentavano fino ad allora. Ora invece è disponibile l'edizione critica curata da Damien Colas, che ha recuperato quattrocento battute del Siège de Corinthe e soprattutto ha ripristinato il testo originale, liberandolo da una miriade di alterazioni. Si è così ascoltata finalmente una versione attendibile del Siège, e si è avuta la conferma che questo è effettivamente uno dei massimi capolavori di Rossini, molto simile e allo stesso tempo molto diverso dal Maometto II, da cui deriva, perché circa la metà della musica è totalmente nuova e ancor più perché diversi erano i princìpi che negli anni intorno al 1820 governavano l'opera seria napoletana e la tragédie lyrique francese, ormai prossima a trasformarsi in grand opéra. Ma non è il caso di dilungarsi qui in un raffronto tra le due opere ed è tempo di riferire all'esecuzione pesarese.
Roberto Abbado imprime il suo sigillo su quest'esecuzione fin dal primo quadro dell'opera, diviso in due numeri musicali – un'introduzione con solisti e coro e un terzetto tra i personaggi principali della fazione greca, con ampi interventi corali – di cui egli fa un possente blocco unico, in cui l'orchestra e il coro assumono il ruolo fondamentale. Questo grandioso organismo musicale della durata di oltre mezz'ora potrebbe rischiare una monumentalità fine a se stessa, come talvolta in Spontini, se Abbado non ne individuasse esattamente la perfetta costruzione musicale, che porta a un progressivo e continuo crescendo drammatico. Non è un caso che l'altro momento dell'opera apparso come una vera rivelazione sia l'appello di Hiéros a morire per la patria e la libertà e la travolgente risposta corale del popolo, dove ancora una volta l'orchestra e il coro sono protagonisti, senza con questo negare a Carlo Cigni il riconoscimento di un intervento molto intenso e coinvolgente nel ruolo di Hiéros. Anche nelle arie e nei duetti il coro e l'orchestra hanno sempre una funzione fondamentale e questo ha consentito ad Abbado di dare a Le Siège de Corinthe una tinta di fondo unitaria, severa e corrusca, come raramente si ascolta nelle opere di Rossini. Ottima la risposta dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, che da quest'anno è l'orchestra residente a Pesaro, che ha così finalmente trovato un'orchestra all'altezza di un grande festival internazionale. Il coro è stato una positiva sorpresa, considerando che veniva da un teatro di provincia qual è il Ventidio Basso di Ascoli Piceno e che era impegnato in una parte corale particolarmente lunga e complessa.
Felice anche la scelta dei protagonisti. Luca Pisaroni ha affrontato con tecnica e stile irreprensibili l'impervio ruolo di Maometto II, senza il minimo segno di difficoltà o stanchezza, ma tra le sue corde non c'è l'autorevolezza minacciosa che il sultano deve sfoderare in certi passaggi. Nino Machaidze univa l'agilità virtuosistica alla forza drammatica, facendo di Pamyra un prototipo del soprano drammatico d'agilità, che ufficialmente sarebbe nato qualche anni dopo, intorno al 1830. Néoclès era Sergey Romanovsky, che, nella versione tenorile francese di un ruolo scritto in origine per un contralto en travesti, non solo ha mostrato un bel timbro brunito nel registro centrale e acuti sicuri, seppure un po' esili, e ha dato un forte rilievo drammatico a questo personaggio tormentato, impegnato a difendere senza speranza la patria e innamorato di una donna che ama invece il suo nemico. Cléomène – un secondo tenore – era interpretato da John Irvin, corretto ma pallido nei suoi interventi nei numeri musicali, ma incisivo e drammatico in alcuni recitativi.
Poco da segnalare a proposito della regia, che pure era firmata da Carlus Padrissa della Fura dels Baus, quindi lasciva prevedere qualche invenzione sorprendente, come è nello stile del gruppo teatrale catalano. Si è vista invece una regia piuttosto tradizionale, soprattutto per quel che riguarda la direzione degli attori, che ha fatto ricorso a una gestualità molto sobria, assecondando efficacemente i valori espressivi della musica. Unico grande coup de théâtre era la citata scena di Hiéros e del coro, che tracimava dal palcoscenico in platea, per coinvolgere gli spettatori nel primo grande quadro patriottico che risuona nell'opera romantica, anticipando Verdi di quasi vent'anni.
Stranianti e incomprensibili sono sembrati gli interventi pittorici e i video dell'artista catalana Lita Cabellit, autrice anche dei costumi e delle scene, che consistevano in cataste di contenitori di plastica per l'acqua: il regista ha spiegato di aver voluto in tal modo far intendere che le guerre non hanno mai motivazioni religiose ma economiche e che nel prossimo futuro saranno combattute soprattutto per l'acqua, che sta diventando un bene sempre più raro e prezioso. Non ha spiegato però cosa questo abbia a che vedere con Le Siège de Corinthe. Resterebbe da dire della coreografia... che però non c'era: le danze del secondo atto sono de facto diventate un lungo intermezzo orchestrale eseguito a palcoscenico vuoto, mentre sullo sfondo scorreva un poema di Byron, Darkness.
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