Moses und Aron a Parigi

L’Opéra di Parigi apre la stagione con Schönberg

Moses und Aron
Recensione
classica
Opéra Bastille, Parigi
Moses und Aron

Parigi, Lissner anno uno. Una grande scritta campeggia sulla facciata dell’Opéra Bastille da qualche settimana: “Schönberg o Verdi: perché scegliere?” Dilemma aperto per lo spettatore incerto ma non per il neo-direttore del massimo teatro lirico parigino che, in una stagione meno generosa di quelle recenti, con l’Opéra Comique e il minuscolo ma agguerrito Athénée chiusi per lavori e lo Châtelet oramai geneticamente mutato in tempio del musical stile Broadway, decide per un’apertura non facile. Sì, perché Moses und Aron, in cartellone all’Opéra Bastille in questi giorni, è uno dei lavori più complessi che il secolo ventesimo ci abbia lasciato: complesso per lo spettatore al quale non concede nulla sul piano della spettacolarità, complesso anche per l’impegno produttivo che una tale impresa comporta per un teatro, e complesso per le scelte che implica dal punto di vista interpretativo. Tant’è che da Parigi non si vede da vent’anni e, comunque, si vede pochissimo in giro.

Gliel’hanno chiesto in molti: ma non era meglio cominciare con Rossini? Lissner risponde che semplicemente questo Schönberg gli sembrava più giusto. Più giusto perché più attuale. Sì perché se qualcuno dubitasse, il dibattito sull’essenza e sulla rappresentabilità del Dio degli ebrei (“Dio unico, eterno, onnipresente, invisibile e irrapresentabile” dice il Mosé di Schönberg all’inizio dell’opera) lo è davvero attuale in quest’epoca di integralismi montanti e in una Francia che ha pagato un altro tributo di sangue per aver violato quel tabù. Più giusto perché, se vuole continuare a vivere e ad avere una presenza nella cultura contemporanea, l’opera deve essere rilevante e per questo deve parlare allo spettatore di oggi. Non è certamente estraneo a questo dibattito Romeo Castellucci, l’“artista totale” scelto da Lissner per portare in scena il lavoro di Schönberg per colmare il vuoto lasciato da Patrice Chéreau, con cui il progetto era nato. Il suo controverso Sul concetto di volto nel figlio di Dio proprio nel passaggio in Francia aveva scatenato la reazione di gruppi di cattolici integralisti per l’accostamento, secondo alcuni blasfemo, fra la sacralità del volto di Cristo (in quel caso, nella rappresentazione di Antonello da Messina) e gli escrementi di un uomo prossimo alla fine. Meno controverso e più oscuro, il recente Go down, Moses! ha segnato il primo incontro di Castellucci con la figura biblica di Mosè, eletto anche lì a simbolo dell’incontro dell’uomo con il divino.

Se in questi due lavori Castellucci operava su una drammaturgia costruita in collaborazione con i suoi collaboratori abituali, più articolato e complesso è l’intervento sull’opera di Schoenberg costruita sul contrasto fra due concezioni divergenti e inconciliabili: quella utopica di Mosé e quella politica del fratello Aronne, la “sua parola” al popolo di Israele. Schierato da sempre per un teatro di idee, non narrativo, in cui la dimensione emotiva ha poco spazio, Castellucci spoglia la vicenda di qualsiasi connotazione storica e, per la prima parte, crea uno dei suoi ambienti più iconici: algido, bianchissimo, chiuso da un sipario di tulle che sfuma i contorni di persone e spazio, un deserto senza confini visibili come in quegli ambienti “finitamente” inifiniti di Doug Wheeler. Il divino è evocato nel tormento di Mosé e nel primo dialogo fra i due fratelli, prima ancora che nei miracoli di Aron, che Castellucci mostra come ingegnosi artefatti tecnologici. Il dissidio è tutto nelle parole. La Parola è evocata nell’immagine del nastro del magnetofono (la mediazione fra l’uomo e il divino) e nella successione di parole proiettate sulla tela trasparente del sipario (non è forse Yahveh in tutte le parole?).

La seconda parte non è meno austera, anche se l’apollinea fissità è rotta dal movimento dionisiaco della lunga scena del vitello d’oro (qui un colossale manzo Charolais di 1,5 tonnellate, abbastanza indifferente alle presenze intorno). L’incarnazione in immagine della divinità che Aron impone per non perdere il suo popolo è piuttosto la trasposizione dell’idea del divino nel rito, un rito fatto di simboli e cerimoniali (l’acqua che non purifica, il fango nero che trasforma i corpi, Aron che ufficia come un grande sacerdote tribale avvolto di nastri magnetici). E infine la terza parte, quella dell’ultimo densissimo, dialogo fra Mosé, l’iconoclasta furioso, e Aron, il cinico politico, sullo sfondo di montagne innevate.

Lo scontro è radicale ma Mosè è dubbioso: “Dio irrapresentabile! Idea inesprimibile e multipla! Permetti questa intepretazione? Aron, mia parola, ha il diritto di dare forma a questa immagine? In tal modo, mi sono fatto un’immagine, falsa come tutte le immagini! In tal modo sono sconfitto! In tal modo, tutto quello che ho pensato non era che follia e non può né deve essere detta!” E alla fine le parole: “O verbo, verbo che mi manchi”. Buio. Proprio qui si ferma lo spettacolo parigino, davanti all’impotenza umana davanti al divino. Per la scena il grande problema è trovare il tono giusto (sì, certo, lo è sempre ma per quest’opera lo è molto, molto di più), per la musica la sfida è anche più alta. Il severo linguaggio di Schoenberg, anche quando si fa più sensuale come nella sequenza orgiastica del vitello d’oro, non ammette sbavature o eccessi. Un rigore che si ritrova nell’analitica direzione di Philippe Jordan, concentratissimo nel mare di strumentisti dell’Orchestra dell’Opéra davvero in gran spolvero. A dispetto della lunga locandina, si dice che quest’opera ha tre interpreti: Moses, Aronne e il coro. Il primo è Thomas Johannes Mayer, piuttosto sanguigno e estroverso a dispetto della severità imposta dallo Sprechgesang, il secondo John-Graham Hall, tiene testa con una linea di canto che testa i limiti delle possibilità umane, e il coro quello strepitoso dell’Opéra preparato superlativamente da José Luis Basso e Alessandro Di Stefano. E dopo Schönberg? Donizetti, ovviamente!

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