Improvvisazione fuori stagione
In Sardegna, il festival di Sant'Anna Arresi in una inusuale collocazione invernale
Recensione
jazz
I fenicotteri rosa, che d'estate senza dare troppo nell'occhio si tengono prudentemente riparati in fondo al lato sinistro - guardando il mare - del complesso di specchi d'acqua, adesso a folti gruppi si pavoneggiano da padroni giusto a due passi dal rettilineo che scendendo da Sant'Anna Arresi a Porto Pino taglia la laguna, e si godono spavaldamente l'aria gelida proprio nel punto in cui il vento spazza con più forza gli stagni. D'estate zeppa di villeggianti e bagnanti, Porto Pino è semideserta. In questo Sulcis che vanta le dune di sabbia più imponenti d'Europa, il clima anche d'inverno non è particolarmente rigido. Al massimo una decina di giorni di freddo vero: che quest'anno è arrivato nel bel mezzo di un Ai confini tra Sardegna e Jazz - in trasferta nel periodo delle feste dalla consueta collocazione di fine agosto/primi di settembre.
Gli ultimi giorni del 2014 le temperature sono, per questo angolo di Sardegna, siberiane. Invece della abituale piazza del Nuraghe di Sant'Anna Arresi, è il Palanuraghe appositamente eretto dall'associazione Punta Giara ad ospitare il festival, e il mirto integra generosamente il sistema di riscaldamento della tensostruttura da circo. La sera del 30, mentre sul palco Sadiq Bey, Jean Paul Bourelly e Hamid Drake inalberano la loro ruvida e contestataria America nera, gira la notizia che a Cagliari sta nevicando. Così, se il vento fa tremare il tendone, in compenso c'è il brivido divertito di partecipare ad una situazione da ogni punto di vista decisamente non convenzionale. Perché in questo Ai confini tra Sardegna e Jazz a cavallo fra dicembre e gennaio è tutto diverso rispetto all'estate, ma non la politica musicale, e non capita tutti gli anni di poter ascoltare dell'improvvisazione radicale tra Natale e la Befana. L'edizione invernale del festival di Sant'Anna Arresi non è nata dalla velleità di fare da contraltare a Umbria Jazz Winter (anche se una volta cominciato... non sarebbe affatto male offrire un'alternativa più audace ai cartelloni di Orvieto...). All'inizio dell'estate l'associazione Punta Giara si trovava in una situazione di gravissima difficoltà: i ritardi nell'erogazione dei finanziamenti regionali addirittura non avevano ancora consentito di saldare una parte consistente dei pagamenti relativi all'edizione 2013, e affrontare una nuova edizione in condizioni del genere sarebbe stato suicida. Dunque la sofferta decisione di annullare l'appuntamento di agosto. Una volta risolto il problema dei ritardi, saltare direttamente all'edizione 2015 avrebbe comportato il rischio di uscire dal meccanismo dei finanziamenti. Dunque la soluzione invernale, ma sempre fedeli alla propria ispirazione.
Avviata fra il 18 e il 21 dicembre e proseguita poi dal 27, Ai confini tra Sardegna e Jazz non ha fatto sconti (salvo che sul biglietto: il 31 ingresso gratuito) neanche la sera dell'ultimo dell'ultimo dell'anno. Il gruppo sardo Kandirù, guidato dal chitarrista e vocalist Francesco Peddoni e con una valida sezione di fiati, ha proposto un godibilissimo repertorio di impronta rock e jazz-rock. E fin qui niente di particolarmente stravagante.
Ma poi la scelta di una mezz'oretta di solo di tromba di Peter Evans la notte di San Silvestro è stata un tocco di autentico dadaismo. Trentatreenne, newyorkese di adozione, Evans è uno dei più brillanti esponenti della nuova generazione dell'avanguardia. Prova entusiasmante, il suo solo è stato corroborante specialmente in tutta una prima metà condotta, con la tecnica della respirazione circolare, sostanzialmente senza soluzione di continuità, e in cui l'improvvisazione non andava nella direzione di una articolazione di tipo correntemente jazzistico: nel suo virtuosistico uso di tutta una tavolozza di tecniche, Evans sembrava quasi tendere ad un grado zero della musica, all'evocazione di una dimensione primordiale, in una improvvisazione densa e minuta, senza respiro, microparossistica, nella quale un arcaico senso del suono e un'ossessività da transe parevano incontrarsi con un gusto tutto newyorkese da energy music che rifugge gli spazi vuoti.
A rincarare la dose - ma senza problemi per il numeroso pubblico anche di famiglie convenuto al Palanuraghe - hanno provveduto i Talibam!, ovvero Alan Wilkinson, sax alto e baritono, Matthew Mottel, sintetizzatore, e Kevin Shea, batteria, che hanno accompagnato l'attesa del nuovo anno con un implacabile punk-jazz: barriti di sax, batteria ossuta, claustrofobiche basi di synth, in un insieme con connotati da tenebroso - per così dire - grind free. Poi appena prima dello scoccare della mezzanotte il palco è stato festosamente preso in mano dai torinesi Bandacadabra, encomiabilmente capaci, col loro organico di fiati e percussioni, e vuoi con un classico dello swing, vuoi con un mambo, di fare baldoria ma sempre mantenendo una precisione esecutiva e una nitidezza negli equilibri tra le sezioni veramente sorprendente.
Dove può capitare di ascoltare per quattro sere di fila un talento come Peter Evans? E per tre sere di fila un monumento dell'improvvisazione radicale come Evan Parker? E per tre sere un altro notevole personaggio della giovane generazione dell'avanguardia come Alexander Hawkins? Proporre dei musicisti più volte e in dimensioni diverse all'interno della rassegna è una formula che Sant'Anna Arresi ha adottato spesso e che è doppiamente intelligente: consente da un lato di ottimizzare risorse economiche e organizzative e dall'altro ai musicisti di proporre un'idea più organica della loro arte, al pubblico di apprezzarli in contesti diversi e in maniera meno labile, e di stabilire con loro un rapporto non frettoloso e consumistico. Che la cosa possa funzionare egregiamente lo hanno dimostrato una volta di più le ultime quattro serate del festival, con Evans che dopo il solo dell'ultimo dell'anno ha partecipato a tutti e tre i set di Parker, e Hawkins in tre ruoli diversi.
Il nuovo anno è stato aperto dal trio britannico Decoy, con appunto Hawkins all'Hammond, John Edwards al contrabbasso e Steve Noble alla batteria. Trentatreenne, Hawkins è un talento versatile, protagonista del più avanzato jazz di ricerca ma per esempio anche pianista della band inglese del padre dell'ethio-jazz Mulatu Astatke: ha cominciato con la musica classica e con l'organo per optare quindi per il pianoforte, ma una sollecitazione discografica lo ha riportato anche all'organo, questa volta appunto Hammond. Decoy è un trio atipico per molti versi. Intanto l'organico non corrisponde a quello della gloriosa tradizione degli organ trio, combinazione di organo con batteria e chitarra o sax, senza basso, che poi ha trovato conferme nei settanta in ambito rock e jazz-rock. Poi il filone musicale degli organ trio è pieno di stilemi e cliché, mentre qui è tutto informale, improvvisato, un flusso senza brani e senza soluzione di continuità. E viceversa un trio con organo non è certo una formazione tipica da improvvisazione radicale, come non è tipica dell'improvvisazione la stessa sonorità dell'organo. Ed è anche questo che affascina: improvvisazione spinta con un sound inusuale. Certo Hawkins non si nega il piacere anche di qualche scampolo del soul jazz caro agli organ trio, ma in mezzo ad un libero snodarsi di echi bachiani, atmosfere da space age, apparizioni di Sun Ra e del Miles Davis elettrico, swing, e momenti rarefatti, con un sound organistico scarnificato, che fanno pensare a Messiaen. Bel feeling, Noble molto fluido, e quel portento di John Edwards (che con l'archetto produce suspence da film inglese di fantasmi) che è forse il più estremista dei tre.
Oltre che con Evan Parker, Hawkins si è poi esibito l'ultima sera nel suo ormai classico - ma in questa occasione forse un po' monocorde - duo con il batterista Louis Moholo, leggenda vivente della diaspora sudafricana provocata dall'apartheid, e grande figura della free music europea. Moholo ha brillato il primo dell'anno con il quartetto di Evan Parker, con il leader al sax tenore, Evans alla tromba e alla pocket trumpet, e Edwards al contrabbasso. Moholo, che pure sa essere un batterista estremamente energico, è capace di una straordinaria musicalità, rulla elegantemente sulle pelli, è soffice sui piatti, e riesce a non farsi prendere la mano nemmeno in mezzo alle asprezze di una musica effervescente, che Edwards, inesausto, stimola come un pungiglione. Evans ha fra i suoi grandi pregi di riuscire a non far pensare né a Miles, né a Don Cherry, né a Bill Dixon, e nemmeno alle modalità più tipiche dell'improvvisazione radicale: fantasioso, spesso aereo, arricchisce il lessico dell'improvvisazione con la sua confidenza con la musica barocca e contemporanea accademica - sembra qua e là di sentire certe cose di tromba di Stockhausen. Bello l'incontro del suo strumento con il tenore, a volte con propensioni ayleriane, di Parker.
Estremamente interessante il confronto ravvicinato fra questo quartetto e il quintetto di Parker che si è esibito (dopo l'apprezzabile Hard Up Quartet sardo) il 2 gennaio. Sempre Parker (al tenore), Evans e Edwards, ma con due compagni che rendono la musica, attraverso situazioni piuttosto varie, diversissima da quella del quartetto della sera precedente. Già Evans, come si è detto, non è il classico improvvisatore radicale. Né è di impronta radicale un batterista afroamericano come Hamid Drake: molto presente ma mai invadente, attento, duttile, propulsivo, solare, segue l'evoluzione della musica ma ne è anche in parte rilevante il regista, dando un decisivo impulso alla sua apertura. Negli spazi in cui emerge individualmente, Hawkins è vuoi rarefatto vuoi parossistico, ma sempre con un tocco e una dinamica sofisticati, che contribuiscono grandemente a far respirare la musica. Edwards è un propellente impagabile, e da antologia un suo sintetico solo: prima un'atmosfera tesa, poi un pizzicato perentorio, rude, poi un archetto beffardo, e infine manate sulla cassa. Magnifico. Ad Evans si devono alcuni momenti ariosi, leggeri, in cui la tromba volteggia leggiadra. Altre sequenze sono più congestionate: e nei passaggi a guida Parker/Evans in cui a volte sfociano, sembra di sentire una sorta di frenesia bebop proiettata nel post-free, la classica accoppiata sax/tromba degli anni Quaranta con l'urgenza anfetaminica di Parker (Charlie) e Gillespie che declinata in chiave radicale riesce a dare voce alle nostre urgenze di oggi.
Altro scenario ancora il 3 gennaio con il progetto elettroacustico di Parker, che a volte arriva a mobilitare un organico che sfiora i venti musicisti e qui presentato in un più compatto e assai efficace formato di sette elementi: con Parker, al soprano, e Evans, gli italiani Walter Prati (computer processing) e Marco Vecchi (sound projections), da anni fidati partner di Parker nei suoi lavori elettroacustici, e poi Paul Obermayer e Richard Barrett (live electronics), e Steve Noble (percussioni). Procedure complesse e avanzate, elettronica dal vivo e elaborazione in tempo reale dei suoni, al servizio di un risultato limpidissimo e verrebbe da dire "naturale", un universo musicale formicolante di suoni elettronici, gravitante intorno all'ipnotico soprano di Parker, assorto nel suo infinito rimuginare, ma anche con spazi aperti dalla tromba di un sognante Evans e dalle intelligenti percussioni di Noble, cruciale nell'illuminare il flusso con misura e gusto timbrico.
Adesso il percorso di Ai confini tra Sardegna e Jazz verso un'altra edizione - la trentesima di questo coriaceo festival - dovrebbe essere meno accidentato del solito. Intanto l'associazione Punta Giara ha prodotto per la Nu Bop Records Possible Universe, l'ultima conduction di Butch Morris a Sant'Anna Arresi. Il legame tra Butch, mancato due anni fa, e il festival è stato molto forte, e che in cartellone in questa edizione invernale comparissero diversi dei musicisti coinvolti in quella conduction (Bourelly, Drake, Parker, Pasquale Innarella, Riccardo Pittau) è stato un altro modo per rendergli omaggio. Un altro ancora è il calendario interamente dedicato a Butch pubblicato da Punta Giara, con belle foto di Luciano Rossetti, autore anche degli scatti nel libretto del cd. Sfogliandolo si trovano evidenziate le due settimane a cavallo fra agosto e settembre: meglio non prendere altri impegni.
Foto Riccardo Bergerone
Gli ultimi giorni del 2014 le temperature sono, per questo angolo di Sardegna, siberiane. Invece della abituale piazza del Nuraghe di Sant'Anna Arresi, è il Palanuraghe appositamente eretto dall'associazione Punta Giara ad ospitare il festival, e il mirto integra generosamente il sistema di riscaldamento della tensostruttura da circo. La sera del 30, mentre sul palco Sadiq Bey, Jean Paul Bourelly e Hamid Drake inalberano la loro ruvida e contestataria America nera, gira la notizia che a Cagliari sta nevicando. Così, se il vento fa tremare il tendone, in compenso c'è il brivido divertito di partecipare ad una situazione da ogni punto di vista decisamente non convenzionale. Perché in questo Ai confini tra Sardegna e Jazz a cavallo fra dicembre e gennaio è tutto diverso rispetto all'estate, ma non la politica musicale, e non capita tutti gli anni di poter ascoltare dell'improvvisazione radicale tra Natale e la Befana. L'edizione invernale del festival di Sant'Anna Arresi non è nata dalla velleità di fare da contraltare a Umbria Jazz Winter (anche se una volta cominciato... non sarebbe affatto male offrire un'alternativa più audace ai cartelloni di Orvieto...). All'inizio dell'estate l'associazione Punta Giara si trovava in una situazione di gravissima difficoltà: i ritardi nell'erogazione dei finanziamenti regionali addirittura non avevano ancora consentito di saldare una parte consistente dei pagamenti relativi all'edizione 2013, e affrontare una nuova edizione in condizioni del genere sarebbe stato suicida. Dunque la sofferta decisione di annullare l'appuntamento di agosto. Una volta risolto il problema dei ritardi, saltare direttamente all'edizione 2015 avrebbe comportato il rischio di uscire dal meccanismo dei finanziamenti. Dunque la soluzione invernale, ma sempre fedeli alla propria ispirazione.
Avviata fra il 18 e il 21 dicembre e proseguita poi dal 27, Ai confini tra Sardegna e Jazz non ha fatto sconti (salvo che sul biglietto: il 31 ingresso gratuito) neanche la sera dell'ultimo dell'ultimo dell'anno. Il gruppo sardo Kandirù, guidato dal chitarrista e vocalist Francesco Peddoni e con una valida sezione di fiati, ha proposto un godibilissimo repertorio di impronta rock e jazz-rock. E fin qui niente di particolarmente stravagante.
Ma poi la scelta di una mezz'oretta di solo di tromba di Peter Evans la notte di San Silvestro è stata un tocco di autentico dadaismo. Trentatreenne, newyorkese di adozione, Evans è uno dei più brillanti esponenti della nuova generazione dell'avanguardia. Prova entusiasmante, il suo solo è stato corroborante specialmente in tutta una prima metà condotta, con la tecnica della respirazione circolare, sostanzialmente senza soluzione di continuità, e in cui l'improvvisazione non andava nella direzione di una articolazione di tipo correntemente jazzistico: nel suo virtuosistico uso di tutta una tavolozza di tecniche, Evans sembrava quasi tendere ad un grado zero della musica, all'evocazione di una dimensione primordiale, in una improvvisazione densa e minuta, senza respiro, microparossistica, nella quale un arcaico senso del suono e un'ossessività da transe parevano incontrarsi con un gusto tutto newyorkese da energy music che rifugge gli spazi vuoti.
A rincarare la dose - ma senza problemi per il numeroso pubblico anche di famiglie convenuto al Palanuraghe - hanno provveduto i Talibam!, ovvero Alan Wilkinson, sax alto e baritono, Matthew Mottel, sintetizzatore, e Kevin Shea, batteria, che hanno accompagnato l'attesa del nuovo anno con un implacabile punk-jazz: barriti di sax, batteria ossuta, claustrofobiche basi di synth, in un insieme con connotati da tenebroso - per così dire - grind free. Poi appena prima dello scoccare della mezzanotte il palco è stato festosamente preso in mano dai torinesi Bandacadabra, encomiabilmente capaci, col loro organico di fiati e percussioni, e vuoi con un classico dello swing, vuoi con un mambo, di fare baldoria ma sempre mantenendo una precisione esecutiva e una nitidezza negli equilibri tra le sezioni veramente sorprendente.
Dove può capitare di ascoltare per quattro sere di fila un talento come Peter Evans? E per tre sere di fila un monumento dell'improvvisazione radicale come Evan Parker? E per tre sere un altro notevole personaggio della giovane generazione dell'avanguardia come Alexander Hawkins? Proporre dei musicisti più volte e in dimensioni diverse all'interno della rassegna è una formula che Sant'Anna Arresi ha adottato spesso e che è doppiamente intelligente: consente da un lato di ottimizzare risorse economiche e organizzative e dall'altro ai musicisti di proporre un'idea più organica della loro arte, al pubblico di apprezzarli in contesti diversi e in maniera meno labile, e di stabilire con loro un rapporto non frettoloso e consumistico. Che la cosa possa funzionare egregiamente lo hanno dimostrato una volta di più le ultime quattro serate del festival, con Evans che dopo il solo dell'ultimo dell'anno ha partecipato a tutti e tre i set di Parker, e Hawkins in tre ruoli diversi.
Il nuovo anno è stato aperto dal trio britannico Decoy, con appunto Hawkins all'Hammond, John Edwards al contrabbasso e Steve Noble alla batteria. Trentatreenne, Hawkins è un talento versatile, protagonista del più avanzato jazz di ricerca ma per esempio anche pianista della band inglese del padre dell'ethio-jazz Mulatu Astatke: ha cominciato con la musica classica e con l'organo per optare quindi per il pianoforte, ma una sollecitazione discografica lo ha riportato anche all'organo, questa volta appunto Hammond. Decoy è un trio atipico per molti versi. Intanto l'organico non corrisponde a quello della gloriosa tradizione degli organ trio, combinazione di organo con batteria e chitarra o sax, senza basso, che poi ha trovato conferme nei settanta in ambito rock e jazz-rock. Poi il filone musicale degli organ trio è pieno di stilemi e cliché, mentre qui è tutto informale, improvvisato, un flusso senza brani e senza soluzione di continuità. E viceversa un trio con organo non è certo una formazione tipica da improvvisazione radicale, come non è tipica dell'improvvisazione la stessa sonorità dell'organo. Ed è anche questo che affascina: improvvisazione spinta con un sound inusuale. Certo Hawkins non si nega il piacere anche di qualche scampolo del soul jazz caro agli organ trio, ma in mezzo ad un libero snodarsi di echi bachiani, atmosfere da space age, apparizioni di Sun Ra e del Miles Davis elettrico, swing, e momenti rarefatti, con un sound organistico scarnificato, che fanno pensare a Messiaen. Bel feeling, Noble molto fluido, e quel portento di John Edwards (che con l'archetto produce suspence da film inglese di fantasmi) che è forse il più estremista dei tre.
Oltre che con Evan Parker, Hawkins si è poi esibito l'ultima sera nel suo ormai classico - ma in questa occasione forse un po' monocorde - duo con il batterista Louis Moholo, leggenda vivente della diaspora sudafricana provocata dall'apartheid, e grande figura della free music europea. Moholo ha brillato il primo dell'anno con il quartetto di Evan Parker, con il leader al sax tenore, Evans alla tromba e alla pocket trumpet, e Edwards al contrabbasso. Moholo, che pure sa essere un batterista estremamente energico, è capace di una straordinaria musicalità, rulla elegantemente sulle pelli, è soffice sui piatti, e riesce a non farsi prendere la mano nemmeno in mezzo alle asprezze di una musica effervescente, che Edwards, inesausto, stimola come un pungiglione. Evans ha fra i suoi grandi pregi di riuscire a non far pensare né a Miles, né a Don Cherry, né a Bill Dixon, e nemmeno alle modalità più tipiche dell'improvvisazione radicale: fantasioso, spesso aereo, arricchisce il lessico dell'improvvisazione con la sua confidenza con la musica barocca e contemporanea accademica - sembra qua e là di sentire certe cose di tromba di Stockhausen. Bello l'incontro del suo strumento con il tenore, a volte con propensioni ayleriane, di Parker.
Estremamente interessante il confronto ravvicinato fra questo quartetto e il quintetto di Parker che si è esibito (dopo l'apprezzabile Hard Up Quartet sardo) il 2 gennaio. Sempre Parker (al tenore), Evans e Edwards, ma con due compagni che rendono la musica, attraverso situazioni piuttosto varie, diversissima da quella del quartetto della sera precedente. Già Evans, come si è detto, non è il classico improvvisatore radicale. Né è di impronta radicale un batterista afroamericano come Hamid Drake: molto presente ma mai invadente, attento, duttile, propulsivo, solare, segue l'evoluzione della musica ma ne è anche in parte rilevante il regista, dando un decisivo impulso alla sua apertura. Negli spazi in cui emerge individualmente, Hawkins è vuoi rarefatto vuoi parossistico, ma sempre con un tocco e una dinamica sofisticati, che contribuiscono grandemente a far respirare la musica. Edwards è un propellente impagabile, e da antologia un suo sintetico solo: prima un'atmosfera tesa, poi un pizzicato perentorio, rude, poi un archetto beffardo, e infine manate sulla cassa. Magnifico. Ad Evans si devono alcuni momenti ariosi, leggeri, in cui la tromba volteggia leggiadra. Altre sequenze sono più congestionate: e nei passaggi a guida Parker/Evans in cui a volte sfociano, sembra di sentire una sorta di frenesia bebop proiettata nel post-free, la classica accoppiata sax/tromba degli anni Quaranta con l'urgenza anfetaminica di Parker (Charlie) e Gillespie che declinata in chiave radicale riesce a dare voce alle nostre urgenze di oggi.
Altro scenario ancora il 3 gennaio con il progetto elettroacustico di Parker, che a volte arriva a mobilitare un organico che sfiora i venti musicisti e qui presentato in un più compatto e assai efficace formato di sette elementi: con Parker, al soprano, e Evans, gli italiani Walter Prati (computer processing) e Marco Vecchi (sound projections), da anni fidati partner di Parker nei suoi lavori elettroacustici, e poi Paul Obermayer e Richard Barrett (live electronics), e Steve Noble (percussioni). Procedure complesse e avanzate, elettronica dal vivo e elaborazione in tempo reale dei suoni, al servizio di un risultato limpidissimo e verrebbe da dire "naturale", un universo musicale formicolante di suoni elettronici, gravitante intorno all'ipnotico soprano di Parker, assorto nel suo infinito rimuginare, ma anche con spazi aperti dalla tromba di un sognante Evans e dalle intelligenti percussioni di Noble, cruciale nell'illuminare il flusso con misura e gusto timbrico.
Adesso il percorso di Ai confini tra Sardegna e Jazz verso un'altra edizione - la trentesima di questo coriaceo festival - dovrebbe essere meno accidentato del solito. Intanto l'associazione Punta Giara ha prodotto per la Nu Bop Records Possible Universe, l'ultima conduction di Butch Morris a Sant'Anna Arresi. Il legame tra Butch, mancato due anni fa, e il festival è stato molto forte, e che in cartellone in questa edizione invernale comparissero diversi dei musicisti coinvolti in quella conduction (Bourelly, Drake, Parker, Pasquale Innarella, Riccardo Pittau) è stato un altro modo per rendergli omaggio. Un altro ancora è il calendario interamente dedicato a Butch pubblicato da Punta Giara, con belle foto di Luciano Rossetti, autore anche degli scatti nel libretto del cd. Sfogliandolo si trovano evidenziate le due settimane a cavallo fra agosto e settembre: meglio non prendere altri impegni.
Foto Riccardo Bergerone
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