Il mesto Nyman, stanco di musica
Il compositore inglese alla Reggia di Venaria
Recensione
classica
Pare triste, il caro vecchio Michael. Cammina a capo chino, attraversa le due ali di fan assiepate nella splendida Galleria Grande della Reggia della Venaria, per uno dei suoi concerti italiani. Conoscendolo, deve essergli successo qualcosa: gli è morto il cane? Lo ha lasciato una fidanzata? Ha la febbre? Lento, sale sulla pedana che sostiene il pianoforte a coda dove tutto solo fa il suo “The Piano Sings”; la nuova formula delle sue performance. Da tempo, ci aveva detto, è stanco di musica: ha scritto tutto quello che voleva, e ha avuto un grande successo grazie alle colonne sonore per Peter Greenaway. Gli stanno bene intorno le alte vetrate di una reggia: sembriamo tornati ai tempi dei giardini di Compton House, al suo Settecento nevroticamente citato e postmodernamente torturato.
Invece no. Allibiti, i fan lo sentono affondare in una sterminata suite iniziale di 45 minuti che non è propriamente una variazione, anche se ogni tanto spunta una citazione di Liszt o una del Clavicembalo ben temperato. Quando appaiono una o due frasi di The Piano si vedono spettatrici rovesciare il capo all’indietro, ondeggiarlo a occhi chiusi, colme di commozione estatica e rimpianto. Poi no, Michael se ne va da un’altra parte.
Nyman non è un grande pianista, non è nemmeno lontanamente un Keith Jarrett esoterico, perché non è proprio un possibile seguace di Gurdjieff o di qualsiasi guru. Stanco di musica, il divo Michael da tempo si è messo a fotografare a volte molto bene i luoghi intorno ai suoi concerti, a fare filmati, e ora vuole diventare un regista. Più che farsi sentire, vuol farsi vedere.
Agli ultimi brani, anticipazione del nuovo imminente disco, lascia ostentatamente cadere a terra i fogli degli spartiti dei mini-pezzi, civettuolo e sprezzante. Al termine alcune devote raccattano le reliquie, indisturbate, poi arriva un tecnico di scena musone, raccoglie i fogli residui e grugnisce: «Not free!». Michael con il suo codazzo e un guardaspalle va a godersi la Fontana del Cervo nel cortile della Reggia, e poi se ne va mesto, senza neanche quel suo bel ghigno d’antan, che eccitava tutti.
Invece no. Allibiti, i fan lo sentono affondare in una sterminata suite iniziale di 45 minuti che non è propriamente una variazione, anche se ogni tanto spunta una citazione di Liszt o una del Clavicembalo ben temperato. Quando appaiono una o due frasi di The Piano si vedono spettatrici rovesciare il capo all’indietro, ondeggiarlo a occhi chiusi, colme di commozione estatica e rimpianto. Poi no, Michael se ne va da un’altra parte.
Nyman non è un grande pianista, non è nemmeno lontanamente un Keith Jarrett esoterico, perché non è proprio un possibile seguace di Gurdjieff o di qualsiasi guru. Stanco di musica, il divo Michael da tempo si è messo a fotografare a volte molto bene i luoghi intorno ai suoi concerti, a fare filmati, e ora vuole diventare un regista. Più che farsi sentire, vuol farsi vedere.
Agli ultimi brani, anticipazione del nuovo imminente disco, lascia ostentatamente cadere a terra i fogli degli spartiti dei mini-pezzi, civettuolo e sprezzante. Al termine alcune devote raccattano le reliquie, indisturbate, poi arriva un tecnico di scena musone, raccoglie i fogli residui e grugnisce: «Not free!». Michael con il suo codazzo e un guardaspalle va a godersi la Fontana del Cervo nel cortile della Reggia, e poi se ne va mesto, senza neanche quel suo bel ghigno d’antan, che eccitava tutti.
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