Paleariza 2 | Rotte meridionali
Prosegue il festival calabrese, dal ballu alla canzone di protesta
Recensione
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Puntualmente Paleariza rinnova l’appuntamento con gli strumenti desueti delle musiche meridionali: lira, mandolino, flauto armonico, ciaramelle e zampogne. Queste ultime, a Staiti il 7 agosto, sono state le protagoniste del concerto, letteralmente mozzafiato, di Giuseppe Moffa, Aldo Iezza, Antonello di Matteo e Massimiliano Mezzadonna: la Zampognorchestra. Nome altisonante per un quartetto? Nemmeno per sogno, visto che, di fatto, le “voci” sono spesso una decina, quando non addirittura sedici: magia di un strumento che sa raccontare quattro storie contemporaneamente e che nelle mani di Moffa e compagni rilegge con irriverente passione un repertorio che spazia dai Beatles e i Rolling Stones ai Blues Brothers: se non avete la fortuna di ascoltarli dal vivo, ascoltare per credere il recente Bag to the future.
Chi ha il coraggio di salire su un palco dopo quattro zampognari funky? Probabilmente solo Ciccio Nucera, l’organettista e maestro di cerimonia che nella Calabria greca è un punto di riferimento per i “soni a ballu”, specie se a dialogare con lui è il groove dei tamburelli a tutto volume di Peppe Zindato e Domenico Romeo, un trio che da Gallicianò semina volentieri il ballo in Aspromonte e che a notte inoltrata ha continuato a tener sveglia Staiti dando vita ad una “rota” in cui trovavano spazio ballerini esperti e nuove leve. È questo uno dei tratti distintivi di Paleariza: concerti fino ad oltre la mezzanotte, per poi lasciare spazio, senza amplificazione, direttamente in piazza, alle sonate a ballu, coinvolgendo ogni volta musicisti diversi.
L’altra faccia del festival è il profondo senso della storia delle musiche popolari e di protesta, una storia che la voce e la chitarra di Massimo Ferrante, in apertura della serata di Staiti, incarnano con la maestria di chi sa fondere in un viaggio coerente l’affabulazione delle ballate (“una è la nuvella ca te voglio cuntà, damm'aurienza, stamm'a sentì, quann'è doppo te la puoi scordare…”), i testi di Buttitta e Pasolini, e una strina, che da canto augurale, in Calabria diventa grido di denuncia, come nella “Strina du Judeo” (“vulera c’ammutassiru i putienti, e ‘a strata annittassiru ccu ‘a lingua, davanti u’ cchiu strazzuni di pizzienti”). Se Ferrante sa scavare nel repertorio di regioni musicalmente poco note, come il cosentino, Le Antiche Ferrovie Calabro Lucane, di scena a Palizzi il 9 agosto, sanno viaggiare, a ritmo di littorina, fra litorale grecanico (sulle orme di Lomax), Serre e Sila calabresi e periferie rurali della Basilicata. La voce scartavetrata di Domenico (“Micu”) Corapi si intreccia di volta in volta con l’organetto di Giampiero Nitti, la lira di Ettore Castagna, la zampogna a chiave di Peppe Ranieri dando linfa ad un repertorio che dalle raccolte di canti popolari sa distillare linfa sempre nuova spremendo il meglio dagli stessi strumenti che li hanno generati, scandendo, quando necessario, ritmi ballabili con l’ausilio di rullante e grancassa o di due sassi o, ancora, di una bottiglia di vetro.
Un bel contrasto rispetto all’estetica dei Jedbalak, il trio che fonde il guimbri e la vocalità gnawa di Abdullah Ajerrar con l’esuberante batteria di Mimmo Mellace e le tastiere (ma anche il mandolino e il sax soprano) di Gianluca Sia: un set che ha acceso lo spirito danzante della piazza, nutrendolo con lo sterminato e ispirato ventaglio di brani intonati da Ajerrar, protagonista anche con le craqbl (le grosse nacchere metalliche gnawa) delle sonate a ballu a notte inoltrata, protagoniste, nuovamente, organetto e zampogna, a contendersi, fra presente e passato, il ruolo di motore del ballu.
Ma la zampogna ha anche ben altre doti e a Condofuri superiore l’8 agosto è stata proprio lei a ispirare il momento migliore del concerto di Otello Profazio, infaticabile cantastorie, qui in compagnia dei Fabulanova. La capacità narrativa e di dialogo col pubblico permette a Profazio di trasformare ogni brano in un esercizio di bravura. Ma ogni brano risulta anche un momento a sé stante, forte di decenni di esperienza. Diverso il clima che è riuscito a creare intonando un canto, raccolto qualche anno prima a Roccaforte del Greco, col solo, sensibile, accompagnamento della zampogna di Oreste Forestieri. In chiusura della seconda settimana del festival (aspettando l’Orchestra Bottoni e il Turban Project domenica 11 agosto a Pentedattilo), il 10 agosto il mandolino di Mimmo Epifani ha sfidato le gocce di pioggia della prima serata e ha raccolto intorno a sé e ai suoi sei compagni tutta la Piazza di San Lorenzo, mettendo nella giusta tensione arrangiamenti ispirati dalle tradizioni pugliesi e di tutto il meridione, con la sua capacità di improvvisare e interagire con gli ascoltatori, forte della solida direzione artistica del maestro e chitarrista Sasà Praudo e di ottimi strumentisti quali il mandoloncellista Giuseppino Grassi. La dedica finale è per un’Italia più ospitale verso chi approda alle sue coste: un momento di commozione, prima di lasciar guidare gambe e orecchie dai maestri di Cardeto, insuperabili nello scandire i soni a ballu.
Chi ha il coraggio di salire su un palco dopo quattro zampognari funky? Probabilmente solo Ciccio Nucera, l’organettista e maestro di cerimonia che nella Calabria greca è un punto di riferimento per i “soni a ballu”, specie se a dialogare con lui è il groove dei tamburelli a tutto volume di Peppe Zindato e Domenico Romeo, un trio che da Gallicianò semina volentieri il ballo in Aspromonte e che a notte inoltrata ha continuato a tener sveglia Staiti dando vita ad una “rota” in cui trovavano spazio ballerini esperti e nuove leve. È questo uno dei tratti distintivi di Paleariza: concerti fino ad oltre la mezzanotte, per poi lasciare spazio, senza amplificazione, direttamente in piazza, alle sonate a ballu, coinvolgendo ogni volta musicisti diversi.
L’altra faccia del festival è il profondo senso della storia delle musiche popolari e di protesta, una storia che la voce e la chitarra di Massimo Ferrante, in apertura della serata di Staiti, incarnano con la maestria di chi sa fondere in un viaggio coerente l’affabulazione delle ballate (“una è la nuvella ca te voglio cuntà, damm'aurienza, stamm'a sentì, quann'è doppo te la puoi scordare…”), i testi di Buttitta e Pasolini, e una strina, che da canto augurale, in Calabria diventa grido di denuncia, come nella “Strina du Judeo” (“vulera c’ammutassiru i putienti, e ‘a strata annittassiru ccu ‘a lingua, davanti u’ cchiu strazzuni di pizzienti”). Se Ferrante sa scavare nel repertorio di regioni musicalmente poco note, come il cosentino, Le Antiche Ferrovie Calabro Lucane, di scena a Palizzi il 9 agosto, sanno viaggiare, a ritmo di littorina, fra litorale grecanico (sulle orme di Lomax), Serre e Sila calabresi e periferie rurali della Basilicata. La voce scartavetrata di Domenico (“Micu”) Corapi si intreccia di volta in volta con l’organetto di Giampiero Nitti, la lira di Ettore Castagna, la zampogna a chiave di Peppe Ranieri dando linfa ad un repertorio che dalle raccolte di canti popolari sa distillare linfa sempre nuova spremendo il meglio dagli stessi strumenti che li hanno generati, scandendo, quando necessario, ritmi ballabili con l’ausilio di rullante e grancassa o di due sassi o, ancora, di una bottiglia di vetro.
Un bel contrasto rispetto all’estetica dei Jedbalak, il trio che fonde il guimbri e la vocalità gnawa di Abdullah Ajerrar con l’esuberante batteria di Mimmo Mellace e le tastiere (ma anche il mandolino e il sax soprano) di Gianluca Sia: un set che ha acceso lo spirito danzante della piazza, nutrendolo con lo sterminato e ispirato ventaglio di brani intonati da Ajerrar, protagonista anche con le craqbl (le grosse nacchere metalliche gnawa) delle sonate a ballu a notte inoltrata, protagoniste, nuovamente, organetto e zampogna, a contendersi, fra presente e passato, il ruolo di motore del ballu.
Ma la zampogna ha anche ben altre doti e a Condofuri superiore l’8 agosto è stata proprio lei a ispirare il momento migliore del concerto di Otello Profazio, infaticabile cantastorie, qui in compagnia dei Fabulanova. La capacità narrativa e di dialogo col pubblico permette a Profazio di trasformare ogni brano in un esercizio di bravura. Ma ogni brano risulta anche un momento a sé stante, forte di decenni di esperienza. Diverso il clima che è riuscito a creare intonando un canto, raccolto qualche anno prima a Roccaforte del Greco, col solo, sensibile, accompagnamento della zampogna di Oreste Forestieri. In chiusura della seconda settimana del festival (aspettando l’Orchestra Bottoni e il Turban Project domenica 11 agosto a Pentedattilo), il 10 agosto il mandolino di Mimmo Epifani ha sfidato le gocce di pioggia della prima serata e ha raccolto intorno a sé e ai suoi sei compagni tutta la Piazza di San Lorenzo, mettendo nella giusta tensione arrangiamenti ispirati dalle tradizioni pugliesi e di tutto il meridione, con la sua capacità di improvvisare e interagire con gli ascoltatori, forte della solida direzione artistica del maestro e chitarrista Sasà Praudo e di ottimi strumentisti quali il mandoloncellista Giuseppino Grassi. La dedica finale è per un’Italia più ospitale verso chi approda alle sue coste: un momento di commozione, prima di lasciar guidare gambe e orecchie dai maestri di Cardeto, insuperabili nello scandire i soni a ballu.
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