Perfezione vs. groove

I Manhattan Transfer in concerto al Blue Note di New York

Recensione
jazz
Si parlava giusto qualche giorno fa della gioiosa vitalità di una bimba di 84 anni, Sheila Jordan. Una che oggi, in fondo, sul palco può fare quello che vuole. E non perché il pubblico sarà benevolo nei confronti di una signora della sua età, ma piuttosto perché ogni suo gesto, ogni battuta, ogni improvvisazione racchiude una vita di dedizione per la musica, e per il jazz in particolare.

Poi ti capita di vedere un mito della musica vocale americana e mondiale: i Manhattan Transfer. Quei concerti per cui pensi che valga la pena aspettare mezz'ora fuori dal Blue Note, in una di quelle file ordinate come solo fuori dall'Italia, e con quel vento gelido come solo a New York.

Le voci sono ancora scattanti, taglienti, con quella precisione disumana che li ha resi un punto di riferimento. I pezzi che ti aspetti in una serata del genere ci sono tutti: "Route 66", "Birdland", "Doodlin'", "Tutu", "Java Jive", persino "Santa Claus is Coming to Town", visto che il Thanksgiving è appena passato e ora è ufficialmente Natale per un mese intero.

Eppure a concerto concluso – dopo le battute, il bis e i saluti – ti ritrovi a ripensare all’allegria contagiosa di quell’ottantenne e d’un tratto hai l'impressione che, semplicemente, i Manhattan Transfer non si divertano più. Il loro repertorio è impegnativo, lo è sempre stato, e i loro dischi suonano ancora come una sfida intrigante alle possibilità della voce. Tuttavia quel guizzo, quella scintilla che si percepiscono ancora negli album sembrano scomparsi nel concerto.

Sorvoliamo sui brani solistici di Janis Siegel e Alan Paul (impegnati a promuovere i rispettivi dischi, decisamente old-style e piuttosto sopra le righe), che purtroppo suonano come un unico scivolone. Sorvoliamo, dicevo. Perché quando tutti e quattro sono sul palco, anche se sui loro volti si intravedono i segni di quarant’anni sulla scena, i pezzi scivolano perfettamente su quelle sillabe impossibili e velocissime; l’intonazione e la compattezza del gruppo sono grandiose. Ma è come se tutto fosse rimasto bloccato, intrappolato in un’immagine perfetta di trent’anni fa o giù di lì. L’unica a godersi davvero la serata – e quindi a coinvolgere il pubblico – sembra Cheryl Bentyne, che quest’anno è stata lontana dalle scene a causa di un problema di salute per circa sei mesi (sostituita da Margaret Dorn, che durante il concerto ha fatto capolino tra i tavoli del locale).

“Jazz is always a happiness groove”, dice un verso di "Confirmation", nel testo di Jon Hendriks che ha contribuito a fare la fortuna dei Manhattan Transfer. Il groove c’era, per il resto aspettiamo tempi migliori.

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