C'è una donna sul palco
Nicole Mitchell, icona afro di Chicago
Recensione
jazz
Voglio sapere, chi c’è sul palco. Non mi basta sentire quello che sta suonando. Se è buono. Se è nuovo. Se mi piace o non mi piace. Non mi basta sentire la grazia e la bellezza di quella donna dai corti capelli crespi che si veste con sobria eleganza africana (o hawaiana?). Che smonta in tre pezzi il suo flauto e soffia nel bocchino facendo svolare nell’aria calabrese e marina suoni extraterrestri e con voce piccolina e sublime, acutissima, accompagna con un canto strano il suo fiato jazz sorprendente e inaudito. Nicole Mitchell, a Roccella Jazz, festival che il suo direttore Paolo Damiani vuole fondato sulla consapevolezza del trasmettere conoscenze e formazione, consapevolezza e competenza culturale, è perfettamente icona, qui. Da Chicago porta il suo impegno nella AACM, l’associazione per l’Avanzamento dei Musicisti Creativi afroamericani: nominata "Artist in Residence" del Chicago Jazz Festival 2010, vi terrà tra pochi giorni quattro concerti, dal 2 al 5 settembre, presentando in prima mondiale nuove composizioni, accompagnata dal pianista Anthony Davis, dalla sua Black Earth Orchestra e dall’arpista Edmar Castaneda. Sempre con la Black Earth sarà il 14 settembre in MITO Settembre Musica al Manzoni di Milano.
Qui era Indigo Trio, con la batteria misteriosa e infinita e deep afro di Hamid Drake, e con il molto blues e ironico contrabbasso di Harrison Bankhead. Democratica in ogni sua cellula e ormone, Mitchell apre spesso ai suoi compagni, li appoggia e supporta, li ascolta. Melodica, e anche no. Sperimentale, anche sì. Sorridente, generosa, delicata. Dal college di San Diego è venuta alla scena di Chicago da protagonista, donna in un territorio musicale di maschi. Flautista in un territorio di repertori senza flauti. Sta cominciando a scrivere un pezzo per grande orchestra sinfonica. Parlando della sua ricerca di sonorità “aliene” con Enrico Bettinello per “il giornale della musica” ha detto: «La connessione con il concetto di alterità, di otherness, mi interessa molto: mi chiedo sempre come possiamo essere al tempo stesso creatori e distruttori in questo mondo e la possibilità di creare un altro che consenta di guardare se stessi in quest’ottica è molto stimolante». L’altra, sul palco, è lei. Così ammirevolmente bella e innovativa. Ovvero aliena al banale che respiriamo.
Qui era Indigo Trio, con la batteria misteriosa e infinita e deep afro di Hamid Drake, e con il molto blues e ironico contrabbasso di Harrison Bankhead. Democratica in ogni sua cellula e ormone, Mitchell apre spesso ai suoi compagni, li appoggia e supporta, li ascolta. Melodica, e anche no. Sperimentale, anche sì. Sorridente, generosa, delicata. Dal college di San Diego è venuta alla scena di Chicago da protagonista, donna in un territorio musicale di maschi. Flautista in un territorio di repertori senza flauti. Sta cominciando a scrivere un pezzo per grande orchestra sinfonica. Parlando della sua ricerca di sonorità “aliene” con Enrico Bettinello per “il giornale della musica” ha detto: «La connessione con il concetto di alterità, di otherness, mi interessa molto: mi chiedo sempre come possiamo essere al tempo stesso creatori e distruttori in questo mondo e la possibilità di creare un altro che consenta di guardare se stessi in quest’ottica è molto stimolante». L’altra, sul palco, è lei. Così ammirevolmente bella e innovativa. Ovvero aliena al banale che respiriamo.
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