Tra Monteverdi e Verdi

Presente e futuro dell'Opéra de Lyon

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classica

Il terzo spettacolo del Festival "Memoires"dell'Opéra National de Lyon del 2017 è stato L'Incoronazione di Poppea (nella foto), che dopo le rappresentazioni di Vichhy e Lione potrà essere visto anche all'Opéra Royal di Versailles a fine aprile. Come si è fatto per Elektra e Tristan und Isolde, l'opera di Monteverdi viene riproposta in un famoso allestimento della fine del secolo scorso, che ha debuttato nel 1999 al festival di Aix-en-Provence ed è diventato mitico nella memoria di chi l'ha visto: riproponendolo dopo quasi vent'anni, si è inteso anche verificare se quel mito resiste al passare del tempo.

Dopo le regie di Berghaus per Elektra e di Müller per Tristan, anche questa terza opera reca la firma di un tedesco, ma un tedesco un po' particolare, Klaus Michael Grüber, che, dopo aver sciacquato i propri panni nei Navigli come assistente di Strehler, produsse spettacoli talvolta provocatori ma privi di assunti ideologici preconcetti, ricchi di invenzioni, attenti ai valori profondi dei testi. Sono qualità che calzano come un guanto a L'Incoronazione di Poppea, i cui personaggi rappresentano un campionario umano molto variegato, privo di pregiudizi morali e dominato dall'amore, come afferma il Prologo: non l'astratto amore platonico, ma il molto più concreto e realistico amore del piacere, del denaro, del potere. I protagonisti sono giovanissimi e questo giustifica i loro eccessi e i loro errori, infatti Grüber li rappresenta più come adolescenti sventati e capricciosi che come viziosi incalliti. La recitazione è spontanea, vivace, quasi giocosa e l'azione si svolge in un ameno parco, tra cipressi, piante di limone, siepi di bosso, con lo sfondo di una villa coperta da riproduzioni di edonistici affreschi pompeiani, senza nessun accenno alla grandiosità e alla potenza imperiali. Anche il duetto finale tra Nerone e Poppea si svolge non nella sala del trono alla presenza dei consoli e dei tribuni, come nel libretto, bensì nel parco, di sera, come se fossero semplicemente due adolescenti che si dicono di nascosto il loro amore al chiaro di luna. Una nota tragica risuona soltanto in Seneca, e ancor più in Ottavia, che - tagliate le scene in cui dialoga con altri personaggi - fa soltanto due apparizioni, sola, vestita di nero, dominata dall'orgoglio ferito, dal dolore e dalla sete di vendetta.

Poiché è stata rigorosamente rispettata la regia di Grüber, si è anche mantenuta la soppressione di varie scene da lui decisa nel 1999, ma Sebastien d'Hérin, che ha diretto questa ripresa, ci ha spiegato di aver fatto anche alcune scelte personali: «Diversamente da Minkowski nel 1999, io mi sono basato sull'edizione critica di Alan Curtis. Tra i due manoscritti dell'Incoronazione, quello veneziano e quello napoletano, ho quindi seguito principalmente quello veneziano, che ha tre parti strumentali, più che quello napoletano, che ne ha quattro. Ho usato l'accordatura mesotonica in uso all'epoca. L'orchestra è formata da un basso continuo piuttosto ricco e vario e da due parti di violino, più due cornetti, strumenti all'epoca molto in voga a Venezia. Ho rispettato la libertà d'improvvisazione, particolarmente nella realizzazione del basso continuo, in modo che si potesse manifestare la personalità degli strumentisti del mio gruppo, Les Nouveaux Caractères. Ho inoltre ripristinato alcune ripetizioni nei ritornelli strumentali, che erano state soppresse nel 1999. La mia è un'edizione assolutamente pura, perché non ci sono aggiunte moderne».

A d'Hérin abbiamo anche chiesto di toglierci una curiosità: nessuno degli interpreti era italiano e questo potrebbe costituire un problema per gli ascoltatori italiani, ma per un pubblico straniero è così importante che la pronuncia sia corretta?

«Cambia - ha risposto - da persona a persona. Per quanto mi riguarda, io non conosco bene l'italiano, ma sono molto più sedotto da un cantante che ha capito come utilizzare il testo con la sua voce e che quindi è molto più efficace nell'interpretare il suo personaggio. Durante le prove ho voluto che gi interpreti passassero molto tempo a recitare il testo, poi a leggerlo ritmicamente e solo dopo questa preparazione hanno cominciato a cantarlo».

Questo percorso è stato indubbiamente proficuo, perché la maggior parte dei cantanti non solo aveva una pronuncia corretta ma dava alle parole e alle frasi inflessioni che suonavano assolutamente spontanee e giuste a orecchie italiane. Meritano una segnalazione particolare la Poppea di Josefine Göhmann, il Nerone di Laura Zigmantaite, l'Ottavia di Elli Vallinoja, l'Arnalta di André Gass, il Valletto di Katherine Aitken e la Damigella di Rocío Perez.

Loro e tutti gli altri interpreti dell'opera di Monteverdi erano membri dello Studio dell'Opéra di Lione, fondato nel 2011, il cui direttore artistico è Jean-Paul Fouchécourt - tenore con una lunga e importante carriera internazionale, specialmente nel campo della musica barocca - con il quale abbiamo scambiato qualche parola.

«Lo Studio - ci ha detto - riceve ogni hanno centinaia di domande, tra cui facciamo una selezione severissima, anche in funzione dei ruoli in cui il teatro intende utilizzare questi giovani cantanti: quest'anno su seicento ne abbiamo scelti nove per L'Enfant et les Sorilèges, quattordici per l'Incoronazione di Poppea e alcuni altri per i ruoli secondari di altre produzioni. Tutti hanno già compiuto la loro formazione e in alcuni casi hanno già fatto i primi passi in palcoscenico, quindi non devono fare lezioni di canto ma prepararsi direttamente ai ruoli che interpreteranno in teatro". Come si svolge la preparazione? "I corsi durano tre settimane. Nelle prime due si tratta di perfezionare i vari cantanti dal punto di vista tecnico o stilistico, secondo le necessità di ciascuno di loro. La terza settimana si svolge proprio prima dell'inizio delle prove ed è mirata alla preparazione dell'opera che devono interpretare. Poi li seguo anche durante tutte le prove».

Quali sono i punti su cui ha insistito particolarmente?

«La maggior difficoltà è far comprendere l'essenza della musica di Monteverdi: questo significa lavorare sul recitar cantando, sull'intonazione esatta del sistema mesotonico, sull'assenza di vibrato. La scrittura vocale in sé può sembrare non molto difficile, perché non richiede l'estensione e il virtuosismo di un'opera del bel canto. Ma non è semplice per i cantanti, perché ci sono difficoltà d'altro genere. Per esempio la tessitura dei ruoli di Nerone e Ottavia è problematica, perché è a cavallo tra il soprano e il mezzosoprano. E qual è la voce giusta per Ottone: un mezzosoprano o un controtenore? All'epoca non esistevano le categorie vocali odierne».

L'anno prossimo ai cantanti dello Studio sarà affidata La bella addormentata nel bosco di Respighi, una delle numerose opere italiane presenti nella stagione 2017-2018 dell'Opéra di Lione. Questo avviene dopo anni in cui non erano in cartellone né Verdi né Puccini, tanto che si sarebbe potuto pensare che Serge Dorny, il direttore generale del teatro, non amasse particolarmente l'opera italiana: un'idea errata, perché probabilmente Dorny ama La Traviata e Tosca come ogni appassionato d'opera, ma crede che un teatro non debba riproporre sempre gli stessi pochi titoli. Quando lo abbiamo incontrato nel foyer e abbiamo scambiato qualche parola, ha sintetizzato chiaramente la sue linee guida:

«La prossima stagione resta perfettamente fedele al DNA del teatro, perché il repertorio ha sempre avuto spazio nella nostra programmazione, insieme alla riscoperta di opere dimenticate - l'anno prossimo Il Cerchio di gesso di Zemlinsky, mai rappresentato in Francia - e ad opere contemporanee: a maggio 2018 presenteremo la prima assoluta di GerMANIA di Alexander Raskatov su un testo di Heiner Müller».

Per quel che riguarda il festival, nel 2018 sarà interamente imperniato su Verdi, con Macbeth e Don Carlos, più Attila in forma di concerto: quali le ragioni di questa scelta?

«Innanzitutto dalla prossima stagione il teatro ha il privilegio di avere Daniele Rustioni come "chef permanent" e sarà lui a dirigere queste tre opere. Un'altra ragione è che l'opera di Verdi è eminentemente politica e noi abbiamo voluto scegliere proprio Macbeth e Don Carlos, le sue opere più profondamente politiche, basate sui grandi testi di Shakespeare e Schiller. Sono ancora oggi assolutamente attuali: chi ha il potere, non vuole lasciarlo, vuole conservarlo a ogni costo ed è pronto ad eliminare chiunque lo contrasti. Questo mi fa pensare alle rivoluzioni arabe di questi anni e anche a quei presidenti, in Russia e in altri paesi, che sono pronti a modificare la costituzione per restare al potere».

Mauro Mariani

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Articolo in collaborazione con Fondazione Busoni

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