Il pomeriggio dei Vanishing Twin
Il nuovo disco della band di base a Londra, fra Stereolab e Broadcast
Afternoon X è il quarto album dei Vanishing Twin, formazione in cui è implicata l’ubiqua batterista nostrana Valentina Magaletti (affiancata qui dalla connazionale Marta Salogni, incaricata del mixaggio): una band cosmopolita aggregatasi nel sottobosco londinese a metà del decennio scorso, snellita via via nell’organico fino all’attuale configurazione in trio.
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Benché rappresentato fotograficamente in maniera nebulosa, il nuovo assetto ha generato materiale sonoro più a fuoco di quanto fosse in passato: a dispetto di una persistente elusività formale, il disco è dotato infatti d’intrinseca coerenza.
Gli otto episodi che lo compongono sono frutto di prolungate sedute d’improvvisazione, trattate poi in fase di produzione adottando un taglia-e-cuci imparentato – per affinità elettive – a quello usato da Conny Plank con i Can.
L’analogia può valere, ad esempio, se si considera il brano che dà titolo all’intera raccolta: all’andamento scandito dalla batteria s’intrecciano le linee gommose di un basso dub, sostenendo il canto svagato della polistrumentista belga Cathy Lucas, punto focale e principale forza motrice del gruppo, insidiato dalle interferenze del sintetizzatore manovrato dal giapponese Susumu Mukai (noto da solista con lo pseudonimo Zongamin).
Recita il testo: “Una voce dal cielo mi ha fatto vibrare il cervello, una cascata chimica calda come un aereo a reazione”. A sensazioni alterate alludono pure l’eloquente “Lotus Eaters” (aperto – tra sbuffi d’arpa e percussioni evasive – da un’istantanea stupefatta: “Mi sveglio a Parigi, nel diciottesimo giro della spirale, voci alla finestra”) e “Lazy Garden”, oziosa sosta in un luogo “dove il cielo splende, annuserò i fiori e mi sballerò come gli uccelli (…) cantando mezze canzoni, leggendo mezzi libri, seminuda”.
Intorno, intessuta di vibrafono, riverberi chitarristici e flauto, la musica finisce per sfociare in una fantasmagoria anarchica.
Ancora più complesso è il precedente “The Down Below”, che varcando la soglia degli otto minuti e alternando registri differenti (all’arpeggio di chitarra classica corrisponde un turbinio di spazzole e tamburi, prima di una sospensione ambient e un successivo inserto ritmico dal sapore esotico) assume quasi postura da suite, mentre l’impianto narrativo sfoggia respiro transoceanico (dal “noioso mondo inglese” all’“America!” invocata in chiusura) e ostenta a tratti – parlando di “rivelazione” – toni da sermone (“Il libro dov’è stato scritto è andato perduto fra i dispersi nel Sottosuolo”).
Del resto l’incipit di “Melty”, astratto madrigale intonato in apertura di sequenza, dice: “Tutto ciò che è solido si scioglie in aria, tutto ciò che è sacro è profano”. L’arrangiamento è in quel caso sobrio e minimalista: approccio replicato all’epilogo, intitolato “Subito” e attraversato da visioni oniriche (“Sognando un sogno profondissimo, un sonno anemico, il cuore che batte come in punta di piedi”) e urgenza esistenzialista (“Potrei morire domani, cosa stiamo aspettando?”).
Il medesimo senso d’inquietudine affiora anche in “Marbles” (“I nostri nomi tracciati sulla sabbia, la linea della terraferma è troppo lontana per me, lasciatemi sulle spiagge battute dal vento”), che sospinto da un buffo ritmo marziale, screziato dal movimento cameristico dell’archetto e disturbato da intrusioni aliene è forse il pezzo più bizzarro della collezione.
Collocati in un indefinito altrove geografico e cronologico, i Vanishing Twin allestiscono così una messinscena al tempo stesso anacronistica e futuribile, occupando con elegante nonchalance la posizione lasciata vacante da Stereolab e Broadcast ormai più di dieci anni fa.