Bedouine, la tenera guastafeste
Il secondo album di Bedouine, Bird Songs of a Killjoy, conferma il valore della cantautrice statunitense di origine armena
Eravamo rimasti ammaliati dal primo album di Azniv Korkejian, alias Bedouine, un paio di anni fa. La cantautrice statunitense di origine armena, nata in Siria e cresciuta in Arabia Saudita, aveva messo in fila allora una dozzina di brani dal fascino fragile: voce, chitarra e poco altro creavano un’atmosfera naïf da folk d’antan, diciamo fra Joni Mitchell e Nick Drake, benché astratta in realtà da una precisa dislocazione cronologica. Altrettanti ne propone in questa circostanza, premettendo: «Non si tratta necessariamente della continuazione, ma nemmeno di una diversione».
La canzone delle nuove americane: Bedouine e Jay Som
La scrittura non muta in misura significativa, restando lineare e garbata, semmai qualcosa cambia sul piano degli arrangiamenti, ora più doviziosi, con l’impiego di archi, fiati e tastiere (fra i musicisti coinvolti, il chitarrista Smokey Hormel e il batterista Joey Waronker, fedelissimi di Beck) in rigoroso ambiente analogico.
“One More Time” ne è un buon esempio: ballata essenziale ma emotivamente intensa, ravvivata in maniera quasi impercettibile dal supplemento strumentale. Domanda la protagonista a un certo punto della canzone: "Sei un uccello? Sono io la tua gabbia?", avvicinandoci così al nucleo “ornitologico” del disco. Poco dopo, infatti, scorrono in sequenza “Bird”, “Bird Gone Wild” e “Hummingbird”, caratterizzate – appunto – da un’alata leggerezza.
Con tono languido e sereno, Bedouine prende per mano l’ascoltatore e lo conduce a spasso nel suo mondo, fra confessioni a cuore aperto (“Vivendo come instupidita dall’amore, più faccio meno funziona”, nella brumosa “When You’re Gone”) e scorci del quartiere di Los Angeles in cui vive (“Le strade stilizzate di Sunset Boulevard, dove chiunque è avant-garde”, in “Echo Park”).
A tratti rivela infine la propria natura cosmopolita, conferendo un sottile gusto latino a episodi quali “Dizzy” e “Matter of Heart”, senza mai dare la sensazione di essere la sedicente “guastafeste” del titolo. Bird Song of a Killjoy ne conferma dunque le qualità: niente affatto rivoluzionaria, evidentemente, e tuttavia la grazia confortante che sa esprimere basta e avanza a renderla irresistibile.