Akoma, il cuore pulsante di Jlin
Il nuovo lavoro della produttrice afroamericana Jlin, con comparsate di Björk, Philip Glass e Kronos Quartet
Certifica lo status raggiunto da Jerrilynn Patton, detta brevemente Jlin, il prestigio degli artisti coinvolti in Akoma: album che dà infine seguito al quotato Black Origami.
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Da allora sono trascorsi addirittura sette anni, un’era geologica nella concitata cronologia dei giorni nostri, ma la 36enne produttrice afroamericana – appassionata di matematica ed ex operaia in acciaieria – non è rimasta affatto con le mani in mano.
Nel 2018 aveva composto le musiche di Autobiography, spettacolo di danza diretto dal coreografo inglese Wayne McGregor, e nel 2023 è stata candidata al Pulitzer per quelle destinate a Perspective, performance dell’ensemble statunitense Third Coast Percussion.
Un curriculum ragguardevole, avviato una quindicina di anni or sono partendo dal sottobosco footwork di Chicago con la benedizione dei capiscuola RP Boo e Dj Rashad: spunto per un’esplorazione ad ampio raggio del suono elettronico, via via sempre più emancipata dall’ipercinetico techno funk degli esordi, come precisa puntigliosamente la dicitura – “l’innovatrice” – del suo profilo su X.
Decifrando il titolo del nuovo lavoro, scopriamo che si tratta del vocabolo riferito alla figura simbolica del “cuore” nei codici Adinkra dell’arcaica tradizione Ashanti, gruppo etnico insediato nel territorio dell’attuale Ghana: “Il battito cardiaco è il tamburo originario”, ha chiosato a proposito l’interessata. La pulsazione africana è qui evidente in “Eye Am”, fra tambureggiare prosciugato artificialmente e intrusioni di voci tribali, e affiora pure nella curiosa fisionomia disegnata dalle tabla su cadenze quasi trap in “Challenge (To Be Continued II)”, episodio imparentato a quello omonimo posto a suggello del disco precedente.
Dicevamo però degli ospiti celebri: compare per prima Björk, la cui voce è filtrata a tal punto da risultare pressoché irriconoscibile nell’iniziale “Borealis”, brano articolato su ritmo crittografico e decorato dagli svolazzi di un flauto deformato.
In chiusura, poi, troviamo nientemeno che Philip Glass: “The Precision of Infinity” è punteggiato dai suoi tipici fraseggi al pianoforte, incorporati tuttavia in un nevrotico groove di natura avveniristica.
Il maestro del minimalismo firma inoltre insieme alla protagonista “Sodalite”, dove la trama tessuta dal Kronos Quartet viene smontata e ricombinata immaginando ambientazioni cameristiche da fantascienza.
Gli archi sono ingrediente principale anche nell’impressionante “Summon”: rielaborati in chiave percussiva, suscitano una sensazione di spaesamento evocando al tempo stesso certa avant-garde “industriale” e l’effetto ansiogeno delle colonne sonore di Bernard Herrmann per i film di Hitchcock.
A rasserenare l’atmosfera provvede viceversa “Grannie’s Cherry Pie”, scherzo musicale dal vago sapore jazzistico costruito con una tastiera giocattolo alla maniera beffarda di Aphex Twin, mentre rimandano alla nativa matrice “ghetto house” tracce quali “Open Canvas” e “Auset” (altro nome di Iside, la “grande madre” nell’antico Egitto), introdotta da arpeggi sintetici dalle sembianze “cosmiche” ma animata da uno scalpitante impeto da rave.
Benché possa suonare ostico a un ascolto distratto, Akoma è in realtà un album straordinariamente godibile: senza dubbio il più estroverso nella carriera di Jlin.