Caso vuole escano pressoché in contemporanea i nuovi lavori di artisti che, per quanto distanti sul piano espressivo, si trovano accomunati da trascorsi professionali e attuale collocazione discografica: Seeing Through Sound di Jon Hassell (Ndeya) e Sun Piano di Laraaji (All Saints).
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Merita precedenza per anzianità Jon Hassell, che a dispetto dell’età avanzata – 83 anni compiuti – e di seri problemi di salute – tali da richiedere una campagna di sostegno economico sulla piattaforma Gofundme – continua a produrre musica con regolarità. Seeing Through Sound è opera complementare all’antecedente Listening to Pictures (2018), come si desume dalla titolazione a specchio, in cui al fattore audio corrisponde quello visivo, e soprattutto dalla condivisa appartenenza alla serie chiamata Pentimento, nell’accezione del termine mutuata dalla storia dell’arte: relativa cioè alla sovrapposizione di strati di pittura.
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Allo stesso modo Hassell (per sua stessa ammissione) si è regolato con le registrazioni su 24 tracce processate al computer per ottenere materiale idealmente destinato a ciò che ha definito “ascolto verticale”, ossia «sentire quel che accade al momento», anziché pensare a «un flusso che avanza, basandosi su dove la musica va e cosa viene dopo».
Benché persista il legame con l’intuizione sonora che lo rese celebre, vale a dire le “musiche possibili” ricavate 40 anni fa – con la complicità di Brian Eno – dall’esplorazione del “futuro primitivo” racchiuso nella nozione di Quarto Mondo, ciò che offrono i due volumi di Pentimento si posiziona in un altrove nel quale coesistono l’idea “progressiva” del jazz codificata da Miles Davis nei solchi di In a Silent Way e l’elettronica “intelligente” di scuola Warp, etichetta di cui è ora sussidiario il marchio Ndeya coniato da Hassell medesimo. A riguardo è esemplare qui lo sviluppo dell’iniziale “Fearless”, sospinto da un groove pigro dentro un’avvolgente atmosfera amniotica.
In quel brano la tromba suonata dal protagonista è quasi impercettibile, mentre a seguire prende il centro della scena nell’incantevole “Moons of Titan” modulando un ovattato timbro di raso fra bolle di percussioni. L’album procede con passo flemmatico ed elegante verso l’epilogo affidato alla rarefatta epica ambient di “Timeless” attraversando astrazioni “fusion” (“Delicado”) ed enigmatiche geometrie digitali (“Unknown Wish”).
Emotivamente assai più immediato è ciò che propone in Sun Piano il settantasettenne afroamericano Edward Larry Gordon, ribattezzatosi con vocazione mistica Laraaji alla vigilia del disco che nel 1980 gli diede risalto in una zona di confine fra avanguardia e New Age: Day of Radiance, terzo capitolo nella collana Ambient targata E.G. prodotto dal solito Eno, che lo aveva intercettato quando manovrava la versione elettrificata della cetra da tavolo detta zither in un parco newyorkese. La sua avventura musicale, a un certo punto interrotta per fare il comico nei localini del Greenwich Village, era cominciata tuttavia al pianoforte: strimpellato da principiante che imitava in chiesa il rhythm’n’blues di Fats Domino e studiato poi alla Howard University eleggendo a stelle polari Errol Garner, Ahmad Jamal e Oscar Peterson.
Ed è a quello strumento che Laraaji torna adesso con l’atto inaugurale di una trilogia che in autunno genererà il corrispettivo Moon Piano. Si tratta dell’esito di sedute d’improvvisazione ospitate dalla Brooklyn Unitarian Church e captate in presa diretta dal produttore Hans Zeigler per conto della storica editrice britannica All Saints, da qualche tempo anch’essa in orbita Warp. Una dozzina di bozzetti in questa circostanza, con un solo episodio di ampio respiro, “Resonance”, lungo una sequenza in cui spiccano una rivisitazione ispirata dello standard folk “Shenandoah” e il ragtime stilizzato di “Moods and Emotions”, avendo per apice il gustoso esercizio di minuetto d’impronta jazz “This Too Shall Pass”.
Nell’insieme l’album comunica così una sensazione di gioiosa serenità e massima libertà creativa, a costo di apparire naïf.