Utopisti in Arizona

Il documentario Ask the Sand di Vittorio Bongiorno fra Americana e città del futuro, sulle tracce di Paolo Soleri

Arcosanti
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In viaggio con papà (il film con Verdone e Sordi), Arizona Junior (la gran commedia dei fratelli Coen), “Father and Son” (la celebre canzone del 1970 di Cat Stevens): sono molti i riferimenti che avrei potuto impiegare per dare il titolo a questo articolo dedicato al documentario Ask the Sand. Can We Change the Future? del regista, sceneggiatore, scrittore, musicista (e altre cose che sto dimenticando) Vittorio Bongiorno: un documentario, sì, ma soprattutto la cronaca di un regalo per il diciottesimo compleanno di Giulio, suo figlio, il vero protagonista di questa storia insieme al deserto dell’Arizona e quella città, Arcosanti, che sbuca all’improvviso dopo un centinaio di chilometri di strada infame da Phoenix, lì, in quel deserto, a 1130 metri d’altezza.

– Leggi anche: Songs with Other Strangers al Seeyousound

Giulio è un diciottenne giustamente curioso ma anche intimorito dalla vastità dei paesaggi che si aprono di fronte ai suoi occhi, appassionato di architettura e in cerca di conferme alla sua passione prima di iscriversi a quella Facoltà (cosa che poi ha puntualmente fatto), come il padre appassionato di musica, al punto da comprare l’ennesima chitarra non appena arrivato a Los Angeles, e un turning point altamente simbolico: il raggiungimento della maggiore età, con il desiderio e il timore di cominciare a camminare con le proprie gambe. E la musica dei Calexico, di Joachim Cooder e di Naim Amor & John Convertino, e quelle domande, «Come si vive in un’utopia? Come è possibile vivere ad Arcosanti, in mezzo al deserto? Perché solo il 5% di Arcosanti è stato costruito? Perché studenti e architetti da tutto il mondo visitano Arcosanti ma solo pochi rimangono lì? Arcosanti è un fallimento o un sogno?».

Ne ho parlato con Vittorio Bongiorno dopo aver visto il documentario, presentato in anteprima al Biografilm Festival / International Celebration of Lives di Bologna. 

ask the sand

Prima di guardare questo documentario non avevo mai sentito parlare di “arcologia”, una parola – ho poi capito – che unisce due termini, architettura ed ecologia. Fu coniata da Paolo Soleri (1919-2013), architetto atipico, artista, scrittore, scultore e urbanista torinese che ha trascorso la vita a immaginare mondi utopici (uso questo aggettivo a mio rischio e pericolo, più avanti vedremo perché), sognando una città perfetta che mirasse a ritrovare un legame con la natura e con il luogo stesso.

Dopo la laurea al Politecnico di Torino nel 1946, Soleri ha frequentato per due anni il grande Frank Lloyd Wright (1867-1959), prima a Taliesin West, a Scottsdale in Arizona, poi a Taliesin East, nel Wisconsin.

Un incontro, quello con Wright e con i suoi laboratori di architettura organica, oggi patrimonio mondiale dell'Unesco, che ha lasciato in Soleri un segno profondo e irreversibile, al punto che il giovane architetto, dopo un periodo trascorso in Italia, soprattutto a Vietri sul Mare, dove ha progettato una delle sue poche realizzazioni concrete, vale a dire la fabbrica di ceramiche Sollimene, si è trasferito in Arizona, eleggendola a sua nuova patria. Ed è lì, a circa 100 chilometri da Phoenix, che ha realizzato il suo grande progetto, avviato nel 1970 e ancora in evoluzione: Cosanti (anti-cosa), che, fino al 2013 è stata la sua abitazione e il suo laboratorio, e Arcosanti (anti-cosa architettonica), città ideale per 5.000 abitanti, dove le auto erano bandite e le distanze si misuravano in minuti di cammino.

Arcosanti 1

Acerrimo nemico dell’automobile, critico nei confronti del consumismo, fautore della frugalità – la parola totem della filosofia dell’architetto torinese – e pioniere della bioarchitettura, Soleri in tutti i suoi progetti ha immaginato habitat a bassissimo impatto ambientale, pensati per una società antimaterialista. Per tutta la vita ha continuato ad approfondire le idee di Wright – dalla cui scuola era peraltro stato cacciato, per motivi mai del tutto chiariti - circa gli sviluppi urbanistici delle città del futuro, focalizzandosi sullo spreco delle risorse, sul risanamento del territorio, sull'eliminazione del trasporto privato a favore di quello pubblico e sul maggior uso di biblioteche e luoghi ricreativi.

L'arcologia rappresenta in primis un ideale abitativo: Soleri ha immaginato iperstrutture ad alta densità abitativa, autosufficienti e in grado di minimizzare il loro impatto ambientale; il suo progetto prevedeva infatti ambienti capaci di soddisfare tutti i bisogni energetici della comunità (per luce, riscaldamento e condizionamento), esaltando al tempo stesso le relazioni sociali e la vicinanza con la natura, indispensabile anche per facilitare l’agricoltura e quindi la distribuzione del cibo. La sua aspirazione, rimasta una costante nel suo lavoro di architetto-artigiano, era quella di creare una città che fosse un vero e proprio organismo vivente, in totale simbiosi con il cosmo.

Come già anticipato, Cosanti è stata lo studio e la residenza di Soleri fino alla sua morte. Situata a Paradise Valley, è ora un sito storico aperto al pubblico – come ben documentato dal film – e una scuola-cantiere in cui ancora oggi studenti dell’Università dell’Arizona tentano un approccio di vita comunitaria, costruendo un ambiente sperimentale ed ecologico, autofinanziato da oggetti artigianali, soprattutto campane, realizzati in ceramica e venduti in loco. 

Arcosanti

Questa creazione avveniristica che è stata fonte d’ispirazione per registi e scenografi – basti dire che negli anni Settanta un giovane George Lucas passò di lì, prendendo ispirazione per le ambientazioni di due pianeti della saga di Star Wars, Ewok e Tatooine, luogo di nascita di Anakin e Luke Skywalker – è caratterizzata da paesaggi terrazzati, strutture sperimentali in cemento armato, terra e campane a vento scultoree. 

«La ricchezza consiste non nell’avere di più, ma nell’aver bisogno di meno. Per questo dobbiamo creare ciò di cui la società ha bisogno, non quello di cui l’individuo crede di avere necessità. Il consumismo si sta identificando con il materialismo e oggi rappresenta un’arroganza letale, la premessa di uno tsunami della ragione. Ciò che è necessario è una riformulazione della nostra cultura» – Paolo Soleri

A chi gli chiedeva perché lui, che ne era l’inventore e il promotore, non vivesse ad Arcosanti, Soleri rispondeva che non era interessato a costruirne i contenuti. E continuava, aggiungendo: «Io non sono un animale sociale». Affermazione da prendere certamente con le pinze, ma che rende molto bene il carattere sfuggente o, se vogliamo, polivalente del Nostro – commentava qualche anno fa lo storico dell’architettura Luigi Prestinenza Puglisi.

“Beatificato” nel 2000 con il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia, Soleri lamentava di «essere sempre stato ignorato» dalla sua Torino, che avrebbe potuto dargli spazio in vista delle grandi manovre per le Olimpiadi invernali del 2006. Anche se, a ben vedere, dare spazio a Soleri, paladino dell’alveare e del verticale, per molti avrebbe avuto valore di anatema – e infatti non fu coinvolto.

Carattere polivalente, si diceva poco sopra, sicuramente caratterizzato da un ego gigantesco, Soleri sei anni fa è stato coinvolto in una brutta, anzi pessima storia di cui sono venuto a conoscenza solo qualche giorno dopo aver parlato con Bongiorno: quattro anni dopo la sua morte (quindi senza la possibilità, eventualmente, di difendersi), la figlia Daniela ha pubblicato uno scritto in cui lo accusava di abusi sessuali (la cronaca della vicenda è facilmente rintracciabile in rete).

Si tratta di una questione molto delicata che non poteva (mi spingo al punto di dire che non doveva) essere trattata all’interno del documentario in questione – che, lo ripeto, è sì un documentario dove compare la figura di Paolo Soleri ma non è incentrato su di lui ma bensì su un viaggio di un padre e un figlio in un momento simbolico delle loro vite – né di questo articolo così sommario, ma neanche taciuta. Penso che ogni uomo, per quanto complesso e sfaccettato, alla fine sia un’unità e non abbia senso dividerlo in compartimenti stagni, da un lato il peccatore, dall’altro l’artista, come invece sembra intendere il comunicato pubblicato dalla Fondazione Arcosanti nel dicembre 2018 e ancora presente nel sito ufficiale all’indirizzo arcosanti.org/me-too. Per essere un grande artista o, nello specifico, un grande architetto occorre essere una persona virtuosa? La mia risposta è no: il rapporto tra arte e vita, tra arte e crimine, tra arte e devianza è complesso, ma c’è, certo che c’è, e negarlo sarebbe un’ipocrisia.

Dopo aver più o meno sistemato la mia coscienza, torno al vero argomento dell’articolo, vale a dire il documentario di Vittorio Bongiorno, e lo faccio proponendone il trailer.

«Le riprese risalgono a un viaggio fatto alla fine del 2019 per festeggiare il diciottesimo compleanno di mio figlio», mi racconta Vittorio, «poi a febbraio sono tornato negli States per alcune proiezioni del mio film Greetings from Austin di cui tu scrivesti un po’ di tempo fa; mentre ero a Nashville, un tornado si abbatté nel quartiere dove alloggiavo distruggendo quasi tutto e poi, come ben sai, il mondo impazzì. Per fartela breve sono riuscito a prendere uno degli ultimi voli per l’Europa e rientrare a Bologna il 7 marzo, giusto due giorni prima del lockdown. È stato un periodo piuttosto rocambolesco, ecco, diciamo così. Come hai intuito guardando il documentario, si è unito a noi un operatore, “quello con la mano buona” per intenderci, mentre io gli ho fatto da secondo. Ho volutamente lasciato che fosse mio figlio a condurre le danze, senza imposizioni da parte mia: le domande sono le sue, con la curiosità e a volte l’ingenuità tipiche di un ragazzo che sta diventando un uomo».

«Se hai notato, il film si chiude con un’intervista fatta a Bologna all’archistar Mario Cucinella perché ci sarebbe sembrato presuntuoso e poco credibile che fosse Giulio, diciottenne di belle speranze, a dare l’opinione finale sul futuro delle città. Io mi sono occupato della logistica: prendere i contatti, organizzare il percorso, fare le prenotazioni e soprattutto pagare i conti degli hotel e dei ristoranti [risate]. La musica ha avuto una parte importante in questo viaggio e durante la fase del montaggio: in auto i Calexico e Joachim Cooder ci hanno fatto compagnia e la loro musica del deserto è stata una componente fondamentale di questa avventura. I Calexico addirittura si sono appassionati al nostro progetto al punto da cederci le loro musiche a un prezzo quasi simbolico. Joachim l’avevo incontrato con suo padre Ry a Joshua Tree durante un viaggio precedente e anche con lui il rapporto già esistente ha semplificato le cose».

«C’è anche musica nostra nel film» – prosegue Bongiorno –, «ci si vede suonare insieme e non è ostentazione, ti assicuro che è la nostra quotidianità: prima che lui andasse in un’altra città per studiare architettura, alla sera io cucinavo e lui suonava la chitarra, e al termine anch’io prendevo la mia chitarra e mi univo a lui. Del resto la musica per me è sempre stato il mezzo privilegiato per raccontare storie a mio figlio. Non gli ho mai consigliato di suonare uno strumento piuttosto che un altro: figurati che da ragazzo suonava la batteria, poi per fortuna è passato alla chitarra [risate], deve aver capito che i chitarristi cuccano di più [risate]».

Toglimi una curiosità: tutte le volte che la parola “utopia” è pronunciata di fronte a un abitante di Arcosanti o a un collaboratore di Soleri a Cosanti, la reazione è come quella che scatenerebbe una bestemmia in una chiesa.

«Hai centrato un punto caldo. Ovviamente non era nostra intenzione dare un giudizio definitivo su Cosanti e Arcosanti, utopia o fallimento; per arrivare preparato sono andato a rileggere Thomas More e Le città invisibili di Italo Calvino, ma, come già detto, non abbiamo una risposta. Una cosa è certa: finché l’utopia rimane teorica, sulla carta, nessun problema, ma quando trova una realizzazione, anche solo parziale, deve produrre profitti, altrimenti è catalogata come fallimento, ovviamente secondo la logica capitalistica, quella statunitense in modo particolare. Arcosanti esiste da 53 anni, è stata visitata, abitata e studiata da migliaia di persone provenienti da tutto il mondo, quindi non possiamo parlare in alcun modo di fallimento. È anche vero che la città non è auto-sufficiente, non è riuscita a creare quella sorta di economia circolare immaginata da Soleri, ed è altrettanto vero che non produce profitti, ma quest’ultimo punto non era contemplato nella sua visione.

Questa reazione generalizzata può far sorgere il sospetto di trovarsi di fronte a una specie di setta, fenomeno peraltro piuttosto diffuso negli Stati Uniti.

«No, non parlerei di setta, non è nulla di paragonabile per esempio a Scientology. Questa è una piccola comunità, piuttosto fragile, che in qualche modo si sente sotto assedio: pensa come reagiremmo noi a sentirci porre tutti i santi giorni la stessa domanda sull’utopia. Oh, parliamoci chiaro, la definizione di “città utopica” non è mia e ci sta che un ragazzo di 18 anni la usi. Come hai notato anche tu, le persone si sono un po’ chiuse a riccio ma poi si sono dimostrate gentili e generose, concedendoci la consultazione degli scritti e dei disegni originali di Soleri, ospitandoci ad Arcosanti e concedendoci di filmare e scattare fotografie. Alla fine possiamo tenere buona la definizione di Hanne Sue Kirsch, responsabile dell’archivio, secondo cui Arcosanti non è un’utopia ma un laboratorio. Hanno capito che non era un documentario su Paolo Soleri, non c’era nessuna tesi da dimostrare, del tipo Soleri era buono o Soleri era cattivo: era la storia di un padre che fa vedere al figlio uno dei modi possibili, al limite anche un tentativo fallito, ma non è questo il punto, di scrivere il futuro in maniera diversa. Ripeto, l’hanno capito e addirittura ci hanno concesso gratuitamente le immagini del passato di Soleri, un regalo che mi piace intendere come segno di stima nei nostri confronti».

«Adesso il racconto di questo viaggio prima del buco nero della pandemia è pronto, e dal 24 giugno tutto ciò che ha preceduto il film, vale a dire scritti, schizzi, foto e altro ancora, sarà visibile a Countless Cities, la Biennale delle Città del mondo all’interno del Farm Cultural Park di Favara (AG). In autunno poi il film sarà trasmesso su Sky Arte. Beh, mi conosci, l’obiettivo finale è quello di riuscire a proiettarlo ad Arcosanti. I Calexico, che abitano lì vicino, si sono detti disponibili a partecipare: chissà? Certo, sarebbe bello…».

Arcosanti

Bene, la mia chiacchierata con Vittorio Bongiorno è terminata ma ho ancora negli occhi l’immagine di un diciottenne seduto sotto una gigantesca Yucca brevifolia, un Joshua Tree, mentre con quella chitarra comprata a Los Angeles suona il suo blues del deserto. Chiedi alla sabbia, dice il titolo: sì, ma la sabbia cos’ha risposto? Vittorio Bongiorno non lo sa, io men che meno, speriamo che lo sappia quel ragazzo con la chitarra. Una cosa è certa: per cambiare il futuro bisogna prima cambiare questo presente.

«Non chiedo altro, alla sabbia del deserto, che darci questa bellezza» - Vittorio Bongiorno

 

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