La sesta edizione di CHAMOISic (Chamois 7-8-9 agosto 2015), manifestazione valdostana rivolta all'incontro fra jazz, musica contemporanea ed elettronica, a cura dell'Associazione Insieme a Chamois, è ormai imminente. Ne abbiamo "approfittato" per una breve chiacchierata, a proposito di Chamois e di rassegne in generale, con il direttore artistico di questa discreta (ma valorosa) manifestazione, il trombettista torinese Giorgio Li Calzi.
Com'è nata l'idea di un festival a Chamois?
«È una cosa nata per caso: da qualche anno ho casa in montagna a Chamois, che è un bel rifugio lontano dal caos quotidiano del centro di Torino. Nel 2009, un amico musicista, Carlo Pestelli, fece un concerto a Chamois, organizzato dal proprietario dell'hotel Bellevue, Carlo Turino, uno dei "motori umani" del festival. Carlo Pestelli ha suonato nella saletta comunale, e il giorno dopo il sindaco Remo Ducly (oggi ancora in carica) mi propone di organizzare un piccolo festival di jazz a Chamois e mi mette in contatto con un'associazione, "Insieme a Chamois", che promuove il territorio di Chamois (unico comune in Italia senza automobili, che ha scelto già dagli anni Cinquanta di essere accessibile solo tramite funivia), con la quale mi metto subito al lavoro».
Come siete organizzati?
«Due soci dell'associazione, Laura e Gigi Strocchi, hanno iniziato a lavorare con me al festival. Laura, la vera anima del festival, si occupa dell'organizzazione in generale, del budget e dei bandi, che in genere riesce a chiudere con successo (finora abbiamo vinto i bandi di importanti fondazioni bancarie come CRT e San Paolo). E questo è sicuramente il lavoro più difficile, perché richiede molta attenzione, precisione, e preveggenza. Gigi, suo marito, si occupa dell'organizzazione logistica, altra cosa non da ridere.... Io invece mi occupo del programma e dell'immagine del festival. Cito nomi e cognomi, perché nonostante si sia solo in tre a lavorare full time per il festival, la componente comunitaria è davvero fondamentale ed è quella che alla fine ci ripaga dei soldi che non sono mai abbastanza».
Qual è il rapporto con le amministrazioni e con il pubblico?
«Le amministrazioni locali (regionali e comunali) ci seguono con attenzione in tutte le fasi preparatorie, come fanno anche gli abitanti e gli esercenti di Chamois, il cui contributo è fondamentale per la riuscita della manifestazione: una delle grandi soddisfazioni è che gli abitanti di Chamois, espressione di tutta la comunità, si sentono parte integrante del festival. Il pubblico, dal canto suo, ci risulta sempre più interessato e curioso, e anno dopo anno si prenota ancor più numeroso all'edizione successiva. Per questo abbiamo messo a punto una "piccola" strategia, cioè quella di inserire ogni anno nel programma del festival un artista dall'impatto più "diretto" (si fa per dire, non stiamo parlando di musica leggera), più immediatamente riconoscibile dal grande pubblico: dalla Banda Osiris a Ginevra Di Marco, dal Balanescu Quartet a Daniele Sepe, da Jocelyn Pook con l'Orchestra del Teatro Regio di Torino fino all' Enrico Rava di questa prossima edizione».
Ma al contempo non avete mai rinunciato alla sperimentazione...
«Certo, nonostante questa scelta diciamo più popolare, non smettiamo di dedicare le nostre attenzioni anche a forme di creatività più radicale. Quando il sindaco mi chiese di organizzare un festival jazz, forse non immaginava che oltre ad amare il jazz, fossi un onnivoro di musica a 360 gradi, di musica non legata alle classifiche, cioè a quello che il mercato ci impone, ma legata a musicisti veri, all'improvvisazione, alle musiche del mondo e all'innovazione. Ecco, questo è il criterio strategico che ci siamo posti, insieme ad alcuni paletti che strada facendo ci siamo dati: chiamare un artista del territorio valdostano che apra il festival, o avere almeno un'artista donna per ogni edizione (quest'anno sarà la volta della grande violinista Eva Bittova), oppure, come dicevo, avere un gruppo dall'impatto più immediato, per poi dare subito dopo al pubblico qualcosa di molto più complicato da decodificare. Negli anni scorsi alcuni concerti dedicati ad una più libera improvvisazione sono stati i veri momenti chiave della nostra tre giorni musicale: mi vengono in mente la performance di Paolo Angeli e Takumi Fukushima, oppure quella dei PoliErranti».
Un festival piccolo ("solo" tre giorni di spettacoli), ma di valore, quello di Chamois. Quanto conta la location? E qual è poi secondo te lo stato dell'arte nel nostro paese di queste manifestazioni?
«La nostra location fa davvero molto, è un aiuto in più, e la mancanza di auto fa proprio la differenza: a Chamois è un po' come stare su un'incantata isola sopraelevata. Quanto a un discorso più generale sulle rassegne, molto spesso i festival della penisola non sono di qualità, semplicemente perché vengono organizzati da amministratori che non sono musicisti, che non hanno sensibilità musicale, e che danno al pubblico un surrogato della televisione. Mi chiedo, per quale motivo, nel momento in cui spegni la tele e vai a vedere uno spettacolo, questo spettacolo debba essere la prosecuzione della programmazione televisiva. Personalmente, gli spettacoli più importanti, quelli da cui ho imparato di più, sono proprio quelli che non mi aspettavo, quelli che non avrei mai pensato di andare a sentire o vedere. In giro vedo troppi festival (diciamo) nazional popolari, che vogliono fare il botto per pochi giorni e che non creano continuità durante l'anno. Se si vuole creare un polo culturale, specie quando si hanno molti soldi, questa realtà deve vivere per tutto l'anno e generare cultura di continuo. Rispetto alla tendenza dei festival "ipermercato" che vedo svilupparsi nelle grandi città, festival con programmi tendenzialmente popolari e superficiali, sono più propenso a tanti piccoli festival con competenti specificità».
I contributi pubblici riservati a questo tipo di iniziative sono sempre meno, voi come vi state muovendo? Quant'è difficile organizzare un festival di qualità in Italia?
«A gennaio 2015 Laura Strocchi ha redatto il bando del MIBAC, il Ministero dei beni e delle attività culturali. A settembre avremo modo di conoscere l'esito della gara. Per noi sarebbe importante, perché se lo Stato ci riconoscesse un contributo triennale, avremmo senz'altro più certezze, più possibilità di pensare che il prossimo anno ci saremo ancora. Le preoccupazioni, infatti, sono sempre legate ai soldi e all'incerto futuro. Quest'anno ha aderito al nostro festival anche Valtournenche, il comune limitrofo che fa capo a Cervinia, con un concerto anteprima il 29 luglio (Ernst Reijseger). Questa partecipazione ha la sua importanza, intanto perché non capita tutti i giorni che due comuni vicini si adoperino per organizzare uno stesso evento, e poi per eventuali collaborazioni future (è Valtournenche, infatti, che si è offerta di finanziare l'intero concerto). Certo, essere outsider non aiuta quando ti rivolgi agli interlocutori che poi dovranno finanziarti, ma credo molto nella fiducia che si conquista sul campo, giorno per giorno, anche parlando molto con la comunità di riferimento, quella ospitante. L'anno scorso ci hanno chiesto di fare qualcosa con le campane, e così abbiamo chiamato la Scuola Campanaria di Roncobello, una sorta di gamelan, ma di antica tradizione bergamasca, invece che indonesiana».
Come sopperire quindi all'insufficienza o mancanza, sempre più decisiva in questi ultimi vent'anni, di aiuti pubblici? Una sinergia sempre più stretta tra pubblico e privato? crowdfunding?
«Sicuramente approfondiremo nei prossimi anni nuove strade di finanziamento, tra cui il crowdfunding. Viviamo in anni di grandi cambiamenti e solo le menti agili e resilienti riescono a sopravvivere. Quello che fa salire di livello un festival, è far crescere il lavoro dei collaboratori, del grafico, dell'illustratore, dell'ufficio stampa, del service.... Questo è l'obiettivo mio, e di Laura e Gigi Strocchi: creare una possibilità di lavoro in più a Chamois, oltre a quello di passare tre giornate di musica di altissimo livello insieme ad una comunità in crescita».