Una città per la musica

Intervista a Shain Shapiro, autore di Ecosistemi musicali

Shain Shapiro
Shain Shapiro
Articolo
classica

EDT ha recentemente pubblicato nella collana Risonanze il libro Ecosistemi musicali di Shain Shapiro, scrittore e attivista fondatore di Sound Diplomacy e del Center for Music Ecosystems. Lo abbiamo intervistato a margine del suo intervento alla Milano Music Week

Andiamo subito al punto: cosa intendi per "città della musica"?

«Una città della musica è una città che adotta un approccio consapevole del ruolo che la musica svolge nelle politiche pubbliche e nella strategia urbana. In una città della musica non ci si limita a organizzare festival ed eventi, ma si integra la musica nelle decisioni più ampie in ambito economico, turistico e sociale, basandosi su dati ed evidenze empiriche. Si investe dunque immaginando un ruolo della musica nelle politiche relative alla sanità, all'istruzione o al turismo, basandosi su dati che dimostrino le ragioni di questa integrazione, invece di farlo semplicemente perché "è musica" o perché il sindaco apprezza una particolare band o un’orchestra sinfonica».

Di solito la musica non è considerata un motore di sviluppo e coesione sociale, ma piuttosto come un ornamento, una decorazione. Tu invece ritieni che la musica non debba essere un complemento delle politiche urbane ma possa esserne il fondamento...

«Non il fondamento, ma parte di esso certamente sì. Mi piace questa idea dell'"ornamento", è un modo efficace per esprimere il concetto di come la musica viene spesso ridotta a un ruolo secondario. La musica deve invece far parte di un piano generale, deve essere integrata nelle politiche invece che aggiunta a posteriori. Non prendiamo abbastanza sul serio la musica nelle nostre comunità. La apprezziamo, ne godiamo, ma non pensiamo che possa apportare benefici economici e non la consideriamo uno strumento che serva ad affrontare questioni sociali. Io invece sono convinto che sia una risorsa straordinaria da utilizzare, e di cui possiamo avvantaggiarci traendone grandi benefici».

La musica è ovunque e abbiamo la sensazione di poterne disporre in modo illimitato e quasi gratuito. Ma come per l’acqua potabile, scrivi nel tuo libro, non pensiamo mai a cosa ci sia dietro, alle infrastrutture che ci permettono di goderne. È qui che entra in gioco il termine ecosistema.

«Esatto, si tratta proprio di comprendere come arrivi a noi, e di investire nei sistemi e nelle competenze necessarie. Bisogna però farlo in modo coerente con gli investimenti e le strategie complessive delle città, e con un approccio intenzionale».

Qual è per te un modello ideale di città della musica?

«Per me è necessario innanzitutto che sia presente un ufficio musicale comunale, o un dipartimento per la musica, che non si limiti a organizzare o promuovere eventi, ma che inserisca la musica nelle strategie generali della città, agganciandola alle iniziative di sviluppo economico, al turismo, alla sanità, all'istruzione. Serve una politica cittadina che mostri come la musica sia coinvolta in questi processi. Lo scopo di questo ente non dev’essere solo quello di celebrare la musica, ma di andare più in profondità, di renderla sostanziale nella pianificazione e nella distribuzione delle licenze commerciali, nell'attrare le imprese, nel difendere i talenti, comunicandone il valore da una prospettiva politica».

Una visione per cui la musica può rendere le nostre città luoghi migliori in cui vivere.

«Penso di sì».

Ci sono città che hanno preso seriamente questo approccio?

«Sydney in Australia è un buon esempio. Il governo regionale ha reso possibile il primo incarico del genere al mondo, un vero e proprio ministro della musica che è anche il ministro delle strade. È stata rivista la normativa che pianifica le licenze commerciali, con un sistema più favorevole alla musica invece che correlato banalmente al consumo di alcol, e la città ha un dipartimento di musica. È un sistema che sta funzionando bene. Una città più piccola che penso valga la pena citare è Reykjavík in Islanda: anche lì esiste un ufficio musicale comunale che è coinvolto nel governo cittadino, la città è inserita in un circuito di festival ed eventi, ed è stato sviluppato un programma chiamato "recording Iceland" che fornisce incentivi fiscali. Chi decide di andare in Islanda a registrare un album riceve 25 centesimi per ogni euro speso: un’iniziativa di sviluppo economico che serve anche ad attrarre visitatori».

Hai accennato all’istruzione. C’è chi dice che se avessimo una migliore educazione musicale anche il mondo sarebbe migliore. È vero secondo te, o l’istruzione è solo parte del problema?

«Credo che sia vero, ma dipende da come l’educazione musicale viene impartita. Se ci si limita a insegnare ai bambini a suonare uno strumento non se ne sfruttano tutte le potenzialità. Lo studio della musica dovrebbe entrare anche nei corsi di economia. Una delle cose di cui la gente sa poco o nulla è il diritto d’autore, e la musica può essere un modo fantastico per spiegare come funziona e perché è importante. L'educazione musicale è fondamentale per creare i musicisti e il pubblico del futuro. Ma non sono convinto che quella tradizionale, "ingessata" su certi tipi di musica e strumenti, sia utile».

Una musica che sia anche metafora dell'ascolto degli altri, dell'ascolto delle ragioni degli altri.

«Certo. Creare comunità che mettano al centro la musica fa sì che si impari ad ascoltare meglio le persone».

Leggendo il tuo libro ripensavo all’idea di ecologia sonora che emerge dagli studi di Murray Schafer e Steven Feld, e mi sono chiesto se ci possano essere punti di interscambio o di dialogo tra le tue idee e le loro.

«Sì, certo, anche se il mio punto di vista è oggettivo: penso che la musica o i suoni che possono migliorare il mondo siano quelli che la persona che vuole migliorare il mondo ascolta di fatto. Dobbiamo avere rispetto per tutta la musica, tutti i suoni e tutte le persone. Spesso si investe in certi tipi di musica ignorandone altri, ma io non sono d'accordo. Penso che i generi rappresentino solo un modo per vendere la musica, non un modo per investire nella musica come risorsa per le comunità».

La pandemia ci ha insegnato qualcosa a tal proposito?

«La pandemia è un caso da manuale sul valore della musica. Ci ha insegnato quanto sia importante, quanto non dobbiamo darla per scontata. Ma c’è ancora da fare per dimostrare che richiede molti più investimenti e supporto rispetto a quanto viene fatto attualmente dalle comunità».

 

 

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