Da oltre 60 anni la chitarra elettrica è lo strumento per antonomasia del rock, tant’è vero che spesso per definirlo in contrapposizione alle produzioni più chiaramente impostate sull’elettronica viene sintetizzato come la “musica delle chitarre”. D’altronde l’essenzialità del riff chitarristico – pensate a “Satisfaction” o a “You Really Got Me” – è esattamente quella che decreta il fascino di gran parte del classic rock, dal quale sono derivate le mille correnti del pop odierno.
C’è però un altro modo di intendere la chitarra, un modo che si allontana dal mainstream e che prevede l’impiego dello strumento all’insegna dell’originalità e della ricerca. Vogliamo chiamarlo metodo “sperimentale”, o di avanguardia? La terminologia ha poca importanza. Quel che conta è che ci siano artisti estremamente interessanti, anche in Italia, che riescono a dire qualcosa di inedito con la loro chitarra, e poco più.
Ci sono in particolare tre nomi italiani che hanno pubblicato di recente un album, e che meritano una presentazione approfondita con una breve indagine sul loro modo di fare musica: sono, in rigoroso ordine di pubblicazione dell’ultimo disco, Paolo Spaccamonti, Andrea Cauduro e A Bad Day.
Paolo Spaccamonti, musicista torinese, è un nome ormai ben noto ai lettori del giornale della musica; vanta una produzione discografica copiosa e diversificata, iniziata oltre 15 anni fa, che tra prove soliste e collaborazioni con altri artisti supera la dozzina di album (lo abbiamo intervistato qui).
La sua ultima prova si chiama Ifigenia/Oreste ed è la colonna sonora dello spettacolo omonimo allestito per il Teatro Stabile di Torino un paio d’anni fa. Non è la prima volta che Spaccamonti si cimenta con la sonorizzazione di un evento visuale, che si tratti di film muto o di rappresentazione teatrale, e potremmo anzi dire che è proprio quello l’ambito in cui il talento di Paolo si dispiega al meglio. Il disco ha un fascino peculiare e agisce per sottrazione invece che per eccessi, con un suono spoglio, minimale, senza quasi orpelli percussivi (con rare eccezioni, tra cui la splendida iterazione glitch di “Nuovo sposo” e la più sostenuta “Pilade”), e lascia la chitarra libera di spaziare in sterminate praterie ambient, creando mood riflessivi e struggenti (“Elena”, “Pugnali”) o al contrario scuri e inquietanti (“Tindaro”, “Uccidere Elena”).
Più giovane ma non meno interessante è invece Andrea Cauduro, di origini romane ma anche lui torinese d’adozione, sodale di Spaccamonti e ben inserito nell’avanguardia musicale cittadina (con il produttore Paul Beauchamp ha inciso l’anno scorso un bel disco a nome Chaos Shrine di cui vi abbiamo già detto pochi mesi fa).
Andrea ha un background accademico (e un diploma al Conservatorio), ma nel recente Without People You’re Nothing, il suo secondo album solista, mostra di saper maneggiare disinvoltamente materia di tutt’altro genere, affiancando arpeggi chitarristici di impronta (post) rock a inserti rumoristici perfettamente calibrati: l’esempio migliore sarà “Tiziano attento con quell’ascia”, dal titolo parodisticamente pinkfloydiano. Qui il suono non è propriamente ambient, ci sono arrangiamenti più costruiti, ma l’esito è comunque delicato e onirico, attraverso stratificazioni di panorami di soffice psichedelia.
A Bad Day è invece una coppia, formata da Sara Ardizzoni (attiva come solista anche con il moniker Dagger Moth) e da Egle Sommacal, noto soprattutto per essere uno dei membri fondatori dei Massimo Volume; è in questa band che Sara ha conosciuto Egle, poiché vi è entrata come seconda chitarra da qualche anno, in sostituzione di Stefano Pilia.
I due hanno scoperto subito di avere una sensibilità molto affine, e il recente album Flawed è il risultato della loro prima collaborazione. Due chitarre in costante dialogo, mutevoli in costrutti, suoni e armonie, una creatività scoppiettante e mai doma. Dei tre dischi trattati, questo è quello che più si avvicina alla forma canzone, sebbene sia anch’esso totalmente strumentale; ma riesce nel difficile compito di abbinare un approccio avventuroso di ricerca sonora ad un’ascoltabilità a tratti quasi “pop” – anche se le virgolette sono d’obbligo.
La cosa che a questo punto ci sembra interessante è capire attraverso quali percorsi un musicista arriva a essere un chitarrista “sperimentale”, ammesso che questa parola assuma un reale significato (tutti e quattro gli artisti, a un certo punto dell’intervista, l’hanno contestata… prendiamo atto!).
La prima cosa che constatiamo è che non esiste affatto, per questi personaggi, un comune denominatore sul primo imprinting di gioventù. Ecco le 4 risposte alla domanda su quale fu il primo genere musicale a cui si sono appassionati.
Paolo: «Il metal, in tutte le sue declinazioni, dall’hard rock al black metal. All’epoca era una faccenda per 4 sfigati, rigorosamente uomini. Per poter assistere ad un evento di quel genere dovevi macinare chilometri, e nove volte su dieci ti ritrovavi in locali improbabili con una manciata di disagiati».
Andrea: «I miei primi ricordi musicali sono legati a dischi e cassette di mio papà, che ascoltava molto cantautorato italiano, Gaber, Jannacci, Conte, ma anche il prog di PFM e Area, musica classica e il jazz di John Coltrane. Ho sempre coltivato la curiosità verso musiche molto diverse e anche distanti da me in termini temporali. Paradossalmente, durante gli anni del Conservatorio ho poi scoperto la musica di gruppi come OfflagaDiscoPax, Zu, Massimo Volume… che mi hanno poi spinto e incuriosito verso territori più contemporanei».
Sara: «In famiglia, fin da quando ero piccola, si è ascoltato veramente di tutto; ma se devo pensare in termini di “genere” probabilmente quello in cui mi sono addentrata per primo è stato il blues. Ma ti parlo di passione da ascoltatrice; da bambina, tra elementari e medie diciamo, adoravo la musica ma non mi passava nemmeno per l'anticamera del cervello di mettermi a suonare».
Egle: «In prima media ho comprato Tarkus degli ELP, me li aveva fatti conoscere un mio amico, andavo a casa sua e mentre leggevamo i fumetti della Marvel e quello era il mio sottofondo preferito. Forse è per questo che continuo a pensare alla musica pop in qualche modo come a un fumetto…».
Periodo strano, la prima adolescenza. Periodo durante il quale si rischiano innamoramenti per personaggi, guitar heroes più o meno riconosciuti, che finiranno con l’essere distantissimi dallo stile adottato in seguito nel ruolo di musicisti. Spaccamonti racconta di infatuazioni per Angus Young, David Gilmour, Toni Iommi, Dave Mustaine, Dimebag Darrell, Kirk Hammett, Peter Tägtgren; wow. Gilmour ricorre anche tra le influenze di Ardizzoni (insieme a Roy Buchanan, Pat Metheny, Wes Montgomery, Stevie Ray Vaughan, Danny Gatton, Mark Knopfler, John lee Hooker… «e mille altri, perché il suono della chitarra, comunque, mi affascinava ed ero un'ascoltatrice curiosa») e di Sommacal (insieme a lui ci mette Ritchie Blackmore dei Deep Purple, Steve Hackett dei Genesis, Robert Fripp e tanti altri, ma soprattutto Jimmy Page).
Più puntuale la risposta di Cauduro: «Mi ha sempre colpito il modo in cui Syd Barrett sembra interpretare il ruolo del chitarrista. Mi interessa il modo in cui alcuni chitarristi sono diventati iconici senza dover necessariamente arrivare all'esasperazione di elementi di tecnica tradizionale. Penso appunto ai feedback di Barrett o al primo Jeff Beck, a Jimmy Page col suo archetto, eccetera. Per me il "guitar hero" ha senso ed è tale se dietro c'è un'idea musicale forte e chiara».
E questo è probabilmente il motivo per cui a un certo punto questi artisti (ancora in nuce) scoprono il potenziale della chitarra come strumento di sperimentazione e di ricerca. Vediamo come ciascuno di loro lo spiega:
Paolo: «Ho capito molte cose collaborando con artisti come Stefano Pilia o Gup Alcaro, persone che hanno lavorato e lavorano moltissimo sul suono. Gup è stato quello che mi ha introdotto al mondo del sound designer, figura professionale che dieci anni fa non conoscevo. Ora mi sembra sia diventata una moda, ma il suo non è un mestiere semplice e non ci si improvvisa. Per quanto mi riguarda, da molti anni l’attenzione si è spostata sull’insieme e non sul singolo strumento. Sono più interessato al suono che ai soli, per capirci…».
Andrea: «Sicuramente una prima epifania c'è stata scoprendo il lavoro in solo di Marc Ribot. Mi sono innamorato del suo approccio proprio negli anni di studio della musica classica. Grazie al suo lavoro ho cominciato a capire le possibilità dello strumento in relazione a differenti semiotiche musicali. Il punto è proprio utilizzare la chitarra come strumento di sperimentazione e ricerca musicale, e non come mezzo tecnico fine a se stesso».
Sara: «In fase adolescenziale, dalle medie in poi, ho capito che preferivo i "guitar anti-hero" e ho approfondito altri meandri musicali. Ho iniziato a mettere le mani sullo strumento… e avevo molto più tempo per ascoltare musica. Quando mi imbattevo in dischi a me contemporanei andavo poi a scoprire cose a ritroso. Ad esempio dai Sonic Youth sono tornata alla No Wave e ad Arto Lindsay, da certi ascolti jazz a Sonny Sharrock…».
Egle: «Ho da subito avuto un approccio non tradizionale con lo strumento. Verso i 13 anni ho iniziato a prendere in mano la chitarra classica che i miei genitori avevano comprato a mia sorella, non sapevo accordarla e passavo le ore a suonare la corda bassa (che avrebbe dovuto essere accordata in mi…) facendo probabilmente la miglior musica che ho mai prodotto. In seguito, nonostante le lezioni e gli studi, il mio approccio non è cambiato di molto, anche se non credo di fare sperimentazione: nel 2025 neanche capisco esattamente cosa significhi!».
Cambia l’approccio, cambiano i gusti, e cambiano anche i modelli di riferimento: quali sono i chitarristi non allineati che ispirano lo stile attuale di questi artisti? (spoiler: emerge nettamente un vincitore…).
Paolo: «Di base non sono un appassionato di chitarra. È lo strumento con cui mi esprimo, ma mi definirei più musicista che chitarrista. Di sicuro amo tutti quei personaggi che con due accordi riescono ad emozionarmi. Un pezzo come “Blue Shit” di Mica Levi, ad esempio, mi comunica più cose di una vita intera di assoli. E ha una struttura armonica molto semplice. O “After the Flood” dei Talk Talk… Quel brano contiene il mio solo preferito di tutti i tempi, ed è un feedback».
Andrea: «Oltre al già citato Ribot penso a una certa produzione di Bill Frisell in solo, James Moore, Robert Quine… In ambito più contemporaneo penso invece al lavoro di Spaccamonti, Pilia, Novaga. In generale mi ritengo fortunato ad essere cresciuto musicalmente in anni in cui musicisti come loro hanno spostato sempre più in là l'asticella delle possibilità dello strumento, in ambiti diversi ma con la stessa urgenza di affermare una propria identità musicale tramite la chitarra. Mi incuriosisce la sperimentazione quando sento che dietro c'è una ricerca musicale di un certo tipo».
Sara: «Dovendo sceglierne uno fra tutti, che è poi quello che nomino sempre: Marc Ribot. Più che altro perché è stato il primo ascolto che ha distorto i miei orizzonti chitarristici da sbarbina. Da lì in poi ho capito che per me avevano perfettamente senso anche suoni che sembravano al limite della stonatura e che, pur esplorando generi e tecniche diversissime, si poteva avere un timbro personale e riconoscibile. Poi ovviamente non mi è mai interessato copiare il suo suono, quello di cui ho fatto tesoro è stato un approccio, una forma mentis».
Egle: «Fred Frith, conosciuto con gli Henry Cow sempre da ragazzino e poi sempre seguito. E per citare i più noti Marc Ribot, che sembra aver influenzato almeno la metà dei chitarristi del mio giro italiani, e Bill Frisell che sperimentale non è ma solo molto bravo… poi tanti altri, ma in realtà non ascolto molta musica per chitarra».
Per finire, una domanda sul senso di questo tipo di approccio nel fare musica; qual è l’obiettivo, se ce n’è uno, nell’arte di questi musicisti, e in particolare di quest’ultimo disco?
Paolo: «Mi piace l’idea di riuscire a stupirmi quando compongo nuovi brani. Col tempo sono diventato più esigente, e dopo tanti dischi è complicato non ripetersi. Ma non riesco a farne a meno, e so che quando mi riesce sto bene. Peraltro, Ifigenia/Oreste prosegue un continuum che va avanti da anni. Ogni disco è una tappa significativa per me, perché vuol dire che ho ancora delle cose da dire. O almeno lo spero».
Andrea: «Il mio auspicio è di conservare il privilegio di poter lavorare e crescere con musicisti, penso appunto a Paolo Spaccamonti o a Paul Beauchamp, di cui ho studiato e apprezzato tanto la musica già in tempi in cui ero uno “studente”. Mi hanno anche insegnato quanto sia importante lo scambio umano in ambito musicale, e quanto senza di esso sia anche difficile immaginare una vera crescita musicale. Oggi siamo tutti molto convinti di questa idea che si possa fare musica da soli nella propria cameretta. Trovo questa visione un po’ parziale e nel mio piccolo cerco di portare avanti il mio discorso in modo diverso: sento un grande bisogno di confronto e di ascolto, e spero di conservare sempre questa curiosità».
Sara: «Non credo di avere veri e propri obiettivi: è un po' come chiedere a un maratoneta perché corre, pur non vincendo mai nessun titolo. Potrei imbastire mille sermoni sulla ricerca del sé, sul potere rituale e taumaturgico della musica, tutti temi sacrosanti, e in cui in parte credo anche, ma che mi sembrano spesso giustificazioni un po’ inflazionate. Faccio la musica che mi sento di fare, fin da quando mi sono entusiasmata nel capire che oltre ai "soliti" percorsi didattici sullo strumento le possibilità espressive potevano essere infinite, divagando nella produzione di suoni altri, diciamo non chitarristici… è una fascinazione che dura anche oggi, con la quale spero magari di creare un tramite emotivo fra la mia bolla e la vita di qualcun altro».
«Le collaborazioni con altri artisti sono fondamentali, mi hanno tutte insegnato qualcosa, perché quando incontri suoni e approcci che ti arricchiscono finisci per portarli con te. Con Egle è nato subito uno scambio molto interessante, entrambi avevamo voglia di andare in una nuova – e condivisa – direzione, di produrre qualcosa di diverso dai nostri rispettivi lavori precedenti e che non appartenesse a nessun ‘circuito’… o forse a un enorme circuito ibrido!».
Egle: «Mi piace suonare, anche se spesso diventa motivo di frustrazione perché non sono un granché come musicista. Comunque cerco di creare un mio mondo, nel quale stare per un po’, forse ha anche una funzione terapeutica. Poi certo mi interrogo sul mio ruolo nella comunità, che cosa posso fare io per la comunità in cui vivo e la mia risposta per ora è cercare di dare della musica che possa in qualche modo essere utile a chi l’ascolta, cercare di farla al meglio delle mie possibilità e capacità».