La morte di McCoy Tyner ha suscitato una grande emozione, risvegliando l’attenzione anche dei media più generalisti, segno che la forza della sua musica era tracimata ben oltre gli angusti confini del mondo del jazz. Tutti hanno celebrato l’originalità del suo stile, l’influenza pervasiva sul pianismo contemporaneo, il gusto limpido e potente della concezione musicale. Ma soprattutto, ogni commento non poteva esimersi dal ricordare il legame con John Coltrane: è infatti nel leggendario quartetto del sassofonista che Tyner ha sviluppato il suo inconfondibile stile, rafforzando l’originalità del gruppo, fino ad attingere a livelli rimasti insuperati.
10 dischi per ricordare McCoy Tyner
È dunque con e grazie a Coltrane che McCoy Tyner mette a punto la tecnica degli accordi per quarte, anche a blocchi estesi, il fraseggio per pentatoniche che scivolano mezzo tono sopra il modo di base, i bassi potenti con quinte aperte, l’infallibile senso ritmico. Coltrane aveva bisogno del pianismo di Tyner non solo perché apriva le maglie dell’armonia e del fraseggio, ma anche perché la sua precisione ritmica rappresentava un punto di equilibrio, un aggancio sicuro al marasma energetico che si instaurava nel dialogo intero al gruppo, soprattutto tra il sassofonista e il batterista Elvin Jones. Tyner era l’ago della bilancia, il pilastro intorno a cui tutto ruota, mentre il bassista Jimmy Garrison fungeva addirittura da freno e contrappeso .
Molto si è scritto anche della separazione tra Tyner e Coltrane nel 1965, quando la direzione free di quest’ultimo spinse il pianista a lasciare l’amico a cui tutto doveva e ad avviare, quasi forzosamente, una carriera da leader. È una pagina ampiamente raccontata, che diventa il fulcro critico dei resoconti biografici su Tyner, la cui vita tranquilla altrimenti non offre ai commentatori appigli melodrammatici. Certo, basterebbe quanto realizzato con Coltrane per porre McCoy Tyner nell’empireo dei pianisti del XX secolo: quest’uomo ha inventato tecniche nuove, ha cambiato il suono dello strumento, ha imposto uno stile a cui nessuno si è potuto sottrarre: cosa chiedere di più? Ma l’attenzione perfino eccessiva sulla separazione da Coltrane ha condotto a una sostanziale sottovalutazione di quella che a nostro avviso è invece la fase più altamente creativa della carriera di Tyner: quella post-coltraniana, in particolare dei dischi per l’etichetta Milestone, registrati in uno stupefacente stato di grazia tra il 1972 di Sahara e il 1978 di Passion Dance, segnato da titoli memorabili, oltre ai due citati: Song for My Lady (1972), Echoes of a Friend (1972), Song of the New World (1973), Enlightment (1973), Sama Layuca (1974), Atlantis (1974).
L’attenzione perfino eccessiva sulla separazione da Coltrane ha condotto a una sostanziale sottovalutazione di quella che a nostro avviso è invece la fase più altamente creativa della carriera di Tyner: quella post-coltraniana.
In queste registrazioni e nei concerti di quegli anni si dispiegano anzitutto alcune delle più suggestive composizioni di Tyner, che scriveva temi elementari ma di potente efficacia, perché basati su due semplici principi. Anzitutto un riff di basso o di pianoforte, che era talmente icastico da imporsi come l’elemento distintivo: tutti ricordiamo il basso di "Walk Spirit, Talk Spirit" o "Atlantis" e a malapena ci sovviene il tema suonato dal sax o dal piano. È la morbida onda pianistica di "Song for My Lady" che ci seduce e ci fa cantare, non l’indistinto tema suonato dal sax, che viene declassato a ornamento. In questo Tyner raccoglie, amplia e trasforma la lezione di Coltrane, che assai spesso attaccava le sue composizioni o arrangiamenti dal basso, come a cercare un solido fondamento al grandioso edificio che sarebbe stato innalzato di lì a poco.
L’altro principio è quello della modulazione modale. Tyner privilegiava dispiegare gli assoli su un solo modo – "Ebony Queen", ad esempio – ma non di rado gli piaceva cadenzare su altri modi, come in "Atlantis", "Song for My Lady", "Passion Dance". Oppure mescolava le due tecniche, come in "Song of the New World", il cui tema si basa su due idee mentre l’assolo si svolge su un modo solo. Una prassi consueta nel jazz modale, (il cosiddetto tema d’inganno) che lo stesso Tyner praticava da tempo e che genera un forte impatto espressivo: ogni volta che la “monotonia” devia su un modo nuovo, ecco che l’ascoltatore ha un brivido dietro la schiena. Tyner applica questa tecnica anche alle riletture degli standard: nella selvaggia colata al calor bianco di "The Night Has a Thousand Eyes" basta una nota del basso che cambia per fare un salto dalla sedia.
Proprio il confronto tra "The Night Has a Thousand Eyes" di Coltrane del 1960 e la rilettura di dodici anni dopo ci fa comprendere il cambio di paradigma nella musica di Tyner: il pianoforte è un’orchestra, e quest’orchestra di tasti bianchi e neri è sempre al centro della musica. Sempre, comunque, in ogni istante, ne è il motore generatore, la sfera ribollente che sprizza schegge infuocate e alimenta con la sua energia i colori disposti intorno ad essa: la costellazione di sax, basso, batteria, percussioni, ora con ora contro il pianoforte, ora intrecciandosi con esso. Durante gli assoli altrui Tyner non si limita ad accompagnare, ma erutta costantemente la soverchiante energia dei ritmi di base: tutto ruota intorno al suo strumento, sempre. Il pianoforte occupa tutto lo spazio acustico.
Tutto ruota intorno al suo strumento, sempre. Il pianoforte occupa tutto lo spazio acustico.
D’altronde che il pianoforte di Tyner pesasse come un’intera orchestra lo aveva già capito Coltrane, quando chiese al suo amico di scrivere gli arrangiamenti orchestrali per Africa/Brass. Tyner si schermì e Coltrane ripiegò (per così dire…) su Eric Dolphy, il quale per "Greensleeves" non fece altro che trascrivere gli accordi di Tyner e proiettarli per orchestra.
Ma torniamo al Tyner degli anni Settanta. Questa forza panica, che travolge tutto – gli altri strumentisti del gruppo e gli ascoltatori – è la manifestazione sonora di gesti. Guardatelo in azione a Montreux nel 1973, in quel memorabile concerto che fu poi pubblicato come Enlightment, di cui disponiamo di una parziale registrazione video.
Nel passaggio da 6:47 (oppure nell’episodio in solo a 10:57) Tyner muove la sinistra quasi a casaccio: dovrebbero essere quinte vuote, ma di fatto cerca un suono possente, ricco, perfino confuso, e quindi agita la mano allo scopo di colpire più note del necessario. Si muove per sbagliare, apposta, per produrre così un suono peculiare. Qui si coglie la lezione di Monk: si guardi il finale di "Just a Gigolo" (Giappone, 1963).
L’arpeggio a 2:56 poteva anche essere eseguito con la sola mano destra; Monk invece colpisce l’ultima nota con la sinistra che scavalca la destra. Ma il gesto è troppo esagerato e a quella velocità è facile che generi un errore. È esattamente quello che Monk vuole: sbagliare, prenderne due note anziché una. Il gesto genera l’errore, che a sua volta genera il timbro desiderato. Davanti a scelte del genere si comprende quanto sia relativo il concetto di tecnica, anche su uno strumento così condizionante come il pianoforte.
Il gesto genera l’errore, che a sua volta genera il timbro desiderato.
Già, la tecnica. Nessuno negherebbe che Tyner è stato un virtuoso fuori dell’ordinario, ma guardate le sue mani nel filmato di Montreux, o in qualsiasi altro esempio. Ecco le inconfondibili scariche di pentatoniche discendenti, sgranate come campane impazzite a velocità impossibile (6:55), eccolo con quattro dita al fulmicotone mentre il pollice rimane fermo a distanza enorme, e le nocche – questa la cosa più incredibile – schiacciate all’ingiù, con il dorso della mano concavo! Si vedano ancora meglio a 10:05, 11:06 e la breve inquadratura da 15:47, col polso alto e le nocche rientranti: una posizione impossibile. Si confronti come Chick Corea, profondamente influenzato da Tyner, suona con correttezza “accademica” passaggi simili: qui invece siamo agli antipodi della buona tecnica pianistica. Lo scopo è creare una musica che danzi sul ciglio periglioso tra forma e informale, tra disegno e macchia: guardate da 12:30 come la destra mantiene un saldo senso della forma mentre la sinistra confonde sempre più le acque, in un’onda montante di energia percussiva.
Lo scopo è creare una musica che danzi sul ciglio periglioso tra forma e informale, tra disegno e macchia.
I ritmi danzanti della musica di Tyner rigonfiano questa tensione a dismisura, mentre si spande un aura di concertismo grandioso, in cui il pianoforte/orchestra diventa per Souleiman Saud (questo il nome musulmano di Tyner) un immenso inno di lode a Dio e alla Natura che egli ha creato. In questo senso il dischi Milestone di Tyner si distinguono dai suoi precedenti per l’esaltante, instancabile gioia, venata qui e lì di malinconia. E di regola lo sguardo si allarga anche ad altre culture: da quella giapponese ("Valley of Life") a quella nordafricana ("Sahara"), al Sud America ("Love Samba") fino al Bartók di "Passion Dance" (la stupefacente versione in solo dal disco omonimo). E anche lì dove la pura potenza sembra prevalere ("The Night Has a Thousand Eyes", "Ebony Queen", "Passion Dance"), essa è sempre una forza benigna, di esultanza individuale e collettiva del potere affermativo della vita.
Nei dischi Milestone di Tyner l’eredità di Coltrane raggiunge una maturità inedita. Mentre schiere di coltraniani si affannavano ad annoiare il pubblico con interminabili nenie modali o a confonderlo con vacui virtuosismi muscolari, Tyner, il musicista più a rischio di sudditanza all’ombra del maestro, se ne libera, si emancipa e scopre che la lezione di Coltrane non soggioga ma libera. Tyner conserva la formula del quartetto, ma la arricchisce con le percussioni, in sintonia con i Weather Report, Keith Jarrett, Chick Corea, che stavano aprendo al jazz le porte delle sonorità afro-brasiliane. Soprattutto, pone il pianoforte al centro dell’universo umanistico e religioso: lo strumento meccanico e razionalista per eccellenza, di tradizione puramente occidentale, esplode, come in Cecil Taylor, in un magma incandescente che canta frenetico una danza gioiosa, esultante, panica, a cui è impossibile resistere.
Grazie per questo, McCoy Tyner.
Ringrazio l’amico Jonny Costantino e la rivista www.ilprimoamore.com per le riflessioni e lo stimolo a scrivere questo saggio.