Eccoci. Questa è la seconda parte delle uscite italiane dell’autunno (qui la prima) scelte a mio insindacabile, parziale e fallibile giudizio, dedicata ad artisti che agiscono in ambito pop. Questa parolina va intesa nel suo significato più generale: ovvero quello che privilegia essenzialmente il formato canzone, seppur di stili diversi, rispetto a un approccio più sperimentale nel suono e nello sviluppo strumentale. Una convenzione come tante, che però preferisco chiarire dall’inizio.
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D’altronde, il pop è cambiato parecchio, in questi ultimi anni. Una volta scrivere una bella canzone significava fare un po’ di ricerca sull’armonia, e trovare soluzioni ritmico-melodiche non banali. Oggi (ma questo succede più o meno da 15, forse 20 anni) il pop mainstream è soprattutto richiamare conclamati cliché di successo: la ricerca dell’originalità è scomparsa.
Ma in altri ambiti, per fortuna, ci sono ancora artisti che provano a battere strade nuove anche nel pop, e molto spesso la chiave per raggiungere risultati di valore è un eclettismo stilistico senza frontiere.
Prendete ad esempio Petrina, che recentemente ha pubblicato L’età del disordine, il suo quinto album nonché il primo in italiano. Petrina è un’artista completa: compositrice, multistrumentista, ballerina, ha una formazione classica ma una facilità espressiva che le permette di passare con nonchalance dalle partiture per orchestra alle canzonette in tre accordi; di lei si sono già accorti anche molti personaggi fuori dall’Italia (tra i tanti, David Byrne e John Parish).
Quello che seduce in questo album è proprio la naturalezza con cui sono accostate atmosfere sofisticate e composizioni ardite a ganci melodici e sonorità attuali; da una parte c’è subito un’estrema immediatezza d’ascolto, dall’altra si scoprono a mano a mano dettagli nuovi, particolari e suggestivi. Pensate insomma a una versione colta di Cristina Donà, tra ascendenze prog e una poetica vicina a Paolo Benvegnù. In ogni caso, Petrina è un’artista originale che merita tutta la vostra attenzione.
Su un piano per certi versi molto simile a quello di Petrina sta Maria Messina, cantautrice sicuramente molto meno famosa (solo tre gli album pubblicati finora, tutti autoprodotti) ma altrettanto eclettica e funambolica. Il recente Reflusso di coscienza è un disco in cui il cambio di registri è un dato di fatto: si passa dall’emulazione del kitsch tastieristico degli anni Ottanta alla musica leggera per sezioni orchestrali, dal pop finto sanremese alle prodezze quasi sperimentali per voci multiple e accompagnamento variabile. Ma anche la scrittura è veramente notevole, così come arrangiamenti e sound, che sono degni di un prodotto da major. Maria Messina meriterebbe sicuramente maggiore visibilità, perché è dotata di un talento non comune.
Ora, se c’è un genere in cui l’eclettismo non è di casa, questo è il cantautorato, che molto spesso, anche in tempi recenti, tende a rimanere legato agli schematismi fondati dai grandi nomi del genere negli anni Settanta. A parziale smentita, ci piace segnalare Rovesciate, il nuovo disco solista dell’ex Perturbazione Gigi Giancursi, che pure in passato (l’album Cronache dell’abbandono) aveva a tratti sofferto del suddetto problema. Questa nuova raccolta, che conta la bellezza di 19 canzoni snelle e fresche, è di tutt’altro umore: potremmo dire spensierato, per rimarcarne la leggerezza, ma forse è meglio definirlo cantautorato pop, perché i testi non sono affatto banali e la musicalità è un abbinamento perfetto di orecchiabilità e fantasia. La lieve ironia di Gigi trova il contesto perfetto in questi arrangiamenti colorati e multiformi, che danno al disco una bellissima atmosfera agrodolce.
Ancora diverso il caso di chi ha radici ben salde nelle tradizione, ma sa farla rivivere senza imbarazzi anche nell’attualità. In questo senso, il nuovo album dei Dead Cat In A Bag è esemplare. Questo trio di base torinese è evidentemente legato al cantautorato blues rock che abbraccia Johnny Cash, Tom Waits, Leonard Cohen (di cui c’è qui una cover, “Hunter’s Lullaby”) e (soprattutto) Nick Cave, ma il modo in cui queste radici riverberano in We’ve Been Through non ha nulla di nostalgico o emulatorio. Al contrario, è un disco che cristallizza in una bellezza assoluta brani di matrice tradizionale, poiché rivisti e lavorati in sound e struttura in modo da apparire nuovi e aggiornati – ad esempio, un classico come “Wayfaring Stranger” è riletto con un’originalissima scrittura in 7/4. Sicuramente il disco più convincente del gruppo e, nel suo genere, tra le cose migliori dell’anno.
Mi fa piacere menzionare altri due dischi che, come il precedente, sono cantati in inglese – la loro evidente parentela con modelli musicali anglosassoni giustifica pienamente la scelta idiomatica. Il primo è We Are Lonely and Glowing in the Night, l’ennesimo album a nome Humpty Dumpty, l’alias dietro al quale si cela il prolifico multistrumentista messinese Alessandro Calzavara, che agisce praticamente come one man band (salvo farsi aiutare in questa circostanza da un pirotecnico Giovanni Mastrangelo al basso). Lo stile HD è un mix in genere ben dosato di influenze psichedeliche e di frenesie post-punk, cosa di per sé non così comune, e in Italia men che meno. In questo album, onestamente non il suo migliore, c’è però un certo sbilanciamento sul lato post-punk, in particolare nella parte iniziale (con riferimenti a certa new wave gotica di seconda schiera, pensate ai Danse Society), che ridimensiona il lato onirico della musica, facendolo affiorare solo a tratti. Ciò detto, il catalogo di Humpty Dumpty è talmente vasto e composito che a partire da questo disco ne potrete scoprire almeno un’altra dozzina meritevoli di ascolto.
E per finire, l’esordio di The Wends. Che poi è un esordio solo nominalmente, in quanto si tratta esattamente della band che fino a un anno fa si chiamava Smile, e che per evitare confusioni con l’omonimo gruppo post Radiohead ha deciso di cambiare ragione sociale. Gli Smile erano un’altra bellissima anomalia del panorama italiano, collocandosi a metà tra il pop chitarristico inglese degli anni Ottanta e la neo psichedelia americana del Paisley underground dello stesso periodo. It’s Here Where You Fall conferma lo stile del gruppo torinese, spostando maggiormente l’accento sul sound americano, per cui a tratti si sente una chiara riedizione dei REM, ancorché con un’energia mai sentita, fino ad altri momenti in cui la frenesia anfetaminica lambisce i confini dell’hard core. In ogni caso, una band che in Italia ha oggi pochissimi termini di paragone: l’American indie in versione nostrana.