Il cantautore Flavio Giurato racconta la sua ispirazione e il nuovissimo Le promesse del mondo, terzo lavoro dalla rentrée del 2007 e secondo negli ultimi tre anni.
Visionario e febbrile, abitato da uno sguardo unico, parco e torrenziale allo stesso tempo, Flavio Giurato non ha termini di paragone nel vasto (troppo ?) regno della canzone (in questo caso decisamente sui generis) cantata in italiano. Tornato alla ribalta dopo otto anni di silenzio (la versione di studio de Il manuale del cantautore era del 2007, ed arrivava ben 23 anni dopo Marco Polo, secondo disco a seguire l'ormai classico Il tuffatore, del 1982), con il penultimo lavoro, La scomparsa di Majorana, del 2015, Giurato sta girando ora l’Italia in tour per poche selezionate date per presentare il nuovissimo Le promesse del mondo. Siamo andati al Teatro San Leonardo di Bologna a vederlo, e abbiamo colto l’occasione per fargli qualche domanda. Le sue risposte non fanno altro che confermarne la personalità viscerale ed imprendibile.
Come definiresti il tuo sguardo sull’esistente? Davvero, come diceva qualcuno, la realtà è la fantasia più uno?
«Per lo sguardo sull'esistente i più forti sono sicuramente i pittori. Konrad Magi, un paesaggista estone di raro talento d'inizio Novecento, diceva: "per la ragione due più due fa quattro, per l'anima può fare un milione, poiché l'anima non conosce intervalli nello spazio e nel tempo"».
«Per me fantasia e realtà sono due elementi legati alla comprensione personale dello sguardo, fantasia e realtà sono avvinte da un nodo stretto e insolvibile, scioglierlo dipende dal sistema di riferimento».
«Se sostituisco a "ragione" "realtà" e ad "anima" "fantasia" capisco che realtà e fantasia sono dei moltiplicatori semplici nella stessa operazione, sempre da due più due si parte per arrivare a quello che ti racconta lo sguardo. Per me fantasia e realtà sono due elementi legati alla comprensione personale dello sguardo, fantasia e realtà sono avvinte da un nodo stretto e insolvibile, scioglierlo dipende dal sistema di riferimento».
Come nasce un tuo pezzo? Sono le parole a dare il la alle canzoni?
«Le parole sono prima suono, che poi diventa significato. Bisogna domare tutte e due le circostanze. La musica dice alle parole come muoversi e le parole dicono alla musica come curvarsi. Per il la basta soffiare dentro l'oboe guardando il primo violino o più semplicemente accendere uno dei miei cinque accordatori giapponesi».
Hai tempo, voglia e modo di ascoltare musiche altrui? Che tipo di ascoltatore sei?
«Per chi fa il mio lavoro c'è un solo tipo di ascoltatore di musica possibile: quello disposto ad imparare».
Ci racconti qualcosa della tua vita all’estero (Il padre è stato un diplomatico per lunghi anni, N.d.R.)? Un ricordo.
«Albemarle Street. Due minuti da Piccadilly, nel cuore di Londra, ancora per poco negli anni Settanta. Ero negli uffici di una produzione cinematografica di proprietà di Michael Pearson, quello dell'editoria. Lord Pearson, uno degli uomini più ricchi d'Inghilterra. Pearson mi accoglie subito con un sorriso, approfittando per attingere da un cristalloso contenitore di whiskey scozzese di fattoria. Il Lord è vestito Saville Row e Bond Street dalla testa ai piedi, con tutto il meglio che l'eleganza e il denaro possano comprare. La sua postura, memore dei tempi in cui i suoi antenati indossavano l'armatura con l'elmo e gli schinieri. È presente nella stanza anche il suo uomo di fiducia, il suo segretario, in jeans, con un ventre prominente fasciato da una t-shirt di cotone. La conversazione fu amabile».
«Per chi fa il mio lavoro c'è un solo tipo di ascoltatore di musica possibile: quello disposto ad imparare».
«Quando la compagnia si sciolse, Lord Pearson si dirige verso la fermata dell'autobus per fare la fila e il suo segretario mi fa entrare con lui in una Rolls Royce Corniche, quella decappottabile per intenderci. Avevo passato un'ora di piacevole affabulazione con entrambi, per poi scoprire solo alla fine che il vero Lord era quello con la maglietta».
Che tipo di lettore sei? Nei tuoi testi ci sono lampi che sanno di poesia.
«La poesia che ha accompagnato la mia vita è rimasta quella dei lirici greci».
Un disco, un libro e un posto che vanno ascoltati, letti e visti una volta nella vita, secondo te.
«Il disco: Wings di Michel Colombier, che cito ne Il tuffatore. Il libro: Lo zen e il tiro con l'arco di Eugen Herrigel, molto utile per chi fa musica. Il posto, sono due: i giardini est del Tufello all'alba con il mio amico il Gorilla che dà da mangiare alle formiche; il campo di baseball dell'Acqua Acetosa a Roma, sotto Monte Antenne, quando al tramonto arrivano i passeri».
Vorrei che parlassi un poco del disco precedente, La scomparsa di Majorana, e di come è nato il pezzo che lo intitola, un capolavoro assoluto, a mio modo di vedere.
«Il pezzo su Ettore Majorana doveva necessariamente originare dai quattro fondamenti della fisica: l'energia, la massa, lo spazio e il tempo. Gli stessi che sono rappresentati dalla copertina del mio Marco Polo. L'introduzione è un ostinato di un solo accordo, si minore settima/quarta con la settima naturale, per rappresentare l'energia».
«La poesia che ha accompagnato la mia vita è rimasta quella dei lirici greci».
«La massa appare quando dal suono nasce la parola (vedi non solo l'Antico Testamento, ma anche tante culture primitive dove sempre la parola origina dal suono). Lo spazio e il tempo coincidono e si alternano nei cambi di ritmo».
Chi ci sta nel centro accoglienza alieni (il riferimento è ad un verso di "Soundcheck", la traccia d’apertura)? Chi sono gli alieni, oggi?
«Gli alieni di oggi sono privi di antenne e birignao elettronico e non c'è Orson Welles che li annuncia. Gli alieni di oggi siamo noi stessi quando ci rifiutiamo di riconoscerci in quello che eravamo ai tempi delle valigie di cartone e ai tempi di Ugo Forno (protagonista di un episodio della resistenza romana raccontato nella traccia "Ponte Salario", la sesta dell’ultimo disco)».
Last but not least: il tuo primo ricordo musicale?
«Tosca, al Teatro Costanzi di Roma. Bambino di sette, otto anni, presentato in camerino dal nonno librettista e regista alla soprano Renata Tebaldi, ancora in costume di scena».